martedì 26 marzo 2019

Edilizia in crisi, come uscirne senza cementificare

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Ci sono 600 cantieri bloccati in un settore, quello delle costruzioni, che ha già perso 600.000 posti di lavoro e 120.000 piccole imprese. Ma la ricetta per uscire dalla crisi non è rilanciare le Grandi opere, anche inutili, o liberalizzare i subappalti e norme anticorruzione come intende fare il governo.
Un settore in grave difficoltà
Da diversi mesi ormai le cronache economiche e quelle del lavoro del nostro paese devono purtroppo registrare con regolarità la crisi di qualche grande impresa nazionale operante nel settore delle costruzioni.

I nomi importanti di cui si è parlato nell’ultimo periodo e di cui si continuano a seguire con una certa ansia le vicende sono, tra l’altro, quelli di Astaldi, Condotte, CMC, Grandi Lavori Fincosit, Trevi; tali imprese erano sino a ieri collocate ai primissimi posti nella classifica italiana delle principali aziende del settore, subito dopo la Salini-Impregilo, la più grande di tutte come dimensione.
Quest’ultima, che non sembra toccata dalla crisi come le altre, non si trova peraltro in una posizione ottimale. Tra l’altro, la pubblicazione del suo bilancio 2018 registra una leggera riduzione del fatturato complessivo rispetto all’anno precedente. Ma essa ha deluso gli analisti soprattutto per un ridimensionamento delle previsioni di andamento per il periodo 2019-2010 rispetto a quelle fatte qualche tempo fa. Così il titolo ha subito al momento un rilevante contraccolpo in Borsa. Di più, i risultati e le prospettive, giudicati complessivamente deludenti, hanno spinto la Standard&Poor’s ad abbassare il rating della società, facendo riferimento, tra l’altro, ai deboli flussi di cassa generati dalla stessa e dai pericoli rappresentati dalla sua potenziale acquisizione di Astaldi.
Incidentalmente, va segnalato che il mondo delle cooperative aderenti al movimento coordinato dalla Lega “rossa” – che avevano una presenza molto importante nel settore – ha visto negli ultimi anni l’entrata in crisi di ben cinque sulle sei più importanti aziende.
Bisogna anche ricordare che la sola Astaldi occupava circa 11.500 persone, le altre imprese sopra citate molte migliaia ciascuna e che le aziende in difficoltà presentano una situazione finanziaria insostenibile. Così la Astaldi ha circa due miliardi di debiti e la CMC quasi un miliardo, con dei fatturati relativamente poco lontani da tali cifre.
Alla fine, ci troviamo di fronte a una terribile disfatta che, come al solito da noi, nessuno ha visto arrivare.

Il perché della crisi secondo l’opinione corrente
Sul perché si debbano registrare queste gravi difficoltà la risposta sembra, a quanto si legge sui giornali, soprattutto legata al fatto che il mercato italiano del settore ha subito un vero e proprio tracollo nell’ultimo periodo.
Questo in relazione alla crisi economica del 2008, alla conseguente riduzione degli investimenti privati, alle crescenti difficoltà dei bilanci nazionali, ai pesanti intoppi burocratici generati da una macchina pubblica che gira a vuoto e al succedersi rapido al comando del paese di diversi governi per di più di vario orientamento politico e con idee almeno in parte differenti sul da farsi.
Si ricorda, per altro verso, come dalla crisi a oggi si siano persi nel settore circa 600.000 posti di lavoro e come abbiano chiuso i battenti nello stesso periodo circa 120.000 piccole imprese; si tratta del comparto complessivamente più toccato dalla crisi. Una catastrofe.
Le organizzazioni padronali del settore, come del resto i sindacati, sottolineano in queste settimane come ci siano oggi circa 600 cantieri bloccati a causa di una macchina burocratica pubblica ferma al palo, pur in presenza di stanziamenti disponibili da tempo; i media sono pieni delle polemiche politiche su alcune grandi opere che incontrano difficoltà ad andare avanti.
Il governo sembra ora, per cercare di fare qualcosa, voler percorrere la strada di una grande deregulation; verrebbero eliminate, tra l’altro, tutte quelle cautele che relativamente di recente erano state inserite nelle normative sugli appalti per proteggerci contro la corruzione diffusa, le infiltrazioni mafiose, le collusioni tra imprese. Il rimedio sarà alla fine probabilmente peggiore del male.

Le vere ragioni della crisi
Ma esaminando con attenzione la situazione ci si accorge che le ragioni della crisi delle grandi imprese del settore sono molto più complesse di quanto possa sembrare a prima vista e di quanto riportino i giornali: questi ultimi, come accennato, legano la crisi esclusivamente al fatto che il mercato italiano delle costruzioni sia fermo.
Intanto bisogna sottolineare che come per il crollo del ponte di Genova – allorché si è scoperto che nel campo delle concessioni autostradali le imprese interessate (a cominciare da Autostrade) guadagnavano molto più del ragionevole – così anche quello delle costruzioni è stato sino a ieri un campo fertile per ricche commesse e grandi profitti. In qualche modo, diverse grandi imprese di ogni colore si spartivano plausibilmente a tavolino i singoli lavori pubblici – a volte inutili, a volte sovradimensionati rispetto alle necessità del paese –, mentre i prezzi spuntati per ogni progetto erano di frequente ben al di sopra di ogni quadro di ragionevolezza.
È stato così a suo tempo calcolato, ad esempio, che la costruzione di un chilometro di autostrada costava da noi, a parità di condizioni orografiche, cinque-sei volte in più di quello di paesi come la Francia, la Spagna o il Giappone.
Su un altro piano, anche per reagire alle difficoltà del sistema Italia, per ridurre i rischi e aumentare le opportunità, le grandi imprese avevano da tempo ragionevolmente avviato una diversificazione delle attività rivolgendosi ai mercati esteri; così, in diversi casi il fatturato internazionale delle grandi aziende nazionali del settore raggiungeva anche il 60-70% del volume d’affari e degli ordini totali. Questo avrebbe dovuto tutelare le aziende dalla crisi del mercato nazionale; ma i fatti mostrano che così non è stato.
Ci si può chiedere per quali ragioni.
Il fatto è che, presumibilmente, negli ultimi anni i più importanti mercati internazionali si sono fatti molto competitivi e comunque più competitivi di quello italiano; tra l’altro, con l’arrivo di nuove imprese protagoniste, da quelle turche a quelle cinesi, i margini di profitto che si potevano spuntare si sono fatti parecchio più stretti e più difficili da raggiungere.
Si sarebbe potuto a questo punto vincere con un’adeguata organizzazione delle attività, ma forse decenni di vacche grasse nel nostro paese non hanno contribuito a prepararsi al compito, data anche l’assenza sul mercato nazionale di una seria concorrenza.
Inoltre le nostre imprese, anche se alcune sono cresciute di dimensione negli ultimi tempi, sono mediamente ancora poco sviluppate rispetto ai grandi concorrenti europei ed asiatici, con corrispondenti minori economie di scala.
La Salini-Impregilo, la più grande, ha in effetti fatturato nel 2018 circa 5,8 miliardi di euro (essendo peraltro cresciuta in maniera rilevante di dimensioni solo di recente), la Astaldi 3 miliardi; sempre la Salini-Impregilo si è classificata nel suo settore all’undicesimo posto come dimensioni a livello europeo nel 2017. Immaginiamo a che posto possa collocarsi a livello mondiale.
Inoltre, altro aspetto importante, le grandi imprese internazionali del settore si sono molto diversificate nell’ultimo periodo come gamma di prodotti e servizi offerti, molto di più di quelle italiane (con progettazione, finanziamento, costruzione, gestione successiva di infrastrutture di molti tipi, partnership pubbliche e private, servizi vari, eccetera).

Cosa bisognerebbe fare
Nel rispondere alla domanda su cosa bisognerebbe fare per migliorare in modo adeguato la situazione, bisogna distinguere tra le politiche pubbliche e quelle delle imprese. In ogni caso, una soluzione adeguata sembra molto complicata da raggiungere nel breve medio-termine.
Intanto, certamente il governo deve trovare il modo di sbloccare i cantieri fermi, ma solo quelli relativi alle opere veramente necessarie, cosa che appare difficile da fare.
La politica dovrebbe inoltre rivedere le priorità di intervento nel settore, puntando meno sulle grandi opere e di più sugli interventi di messa in sicurezza degli edifici, degli impianti, del territorio, della riduzione dell’impronta energetica del settore, sulla riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione dell’esistente: in ogni caso, oltre che rivedendo le procedure, trovando il modo di frenare gli appetiti delle grandi imprese.
Tra l’altro, l’attuale tentativo di sbloccare i cantieri eliminando tutte le cautele, come abbiamo detto, sarebbe un rimedio peggiore del male.
D’altro canto, bisognerebbe certamente aiutare le grandi strutture imprenditoriali a mettere insieme le forze; ma, intanto, non sembra accettabile il desiderio di qualcuno di costituire una sola grande struttura servendosi essenzialmente di fondi pubblici a fini privati, cosa a cui sembra puntare il progetto Salini. Bisognerebbe puntare a costruire almeno due strutture sane (due è meglio di uno, altrimenti il monopolio del mercato porterebbe ad altri guai rilevanti), con la presenza importante nel capitale della Cassa Depositi e Prestiti. Questo ai fini di tutelare gli interessi pubblici e di rinforzare finanziariamente il settore, dal momento che i capitali privati sono ormai da noi latitanti su molti fronti. Non si può invece – ancora una volta – tendere a rafforzare il settore privato con soldi pubblici concessi senza alcuna contropartita, cosa a cui sembrano puntare alcuni ambienti privati.
Le imprese, sulla base di un rilancio del mercato nazionale, di un rafforzamento finanziario, dovrebbero puntare a strategie di diversificazione di attività e di crescita organizzativa, per affrontare sia i mercati nazionali che quelli esteri. Importante è poi trovare il modo di realizzare politiche di alleanze internazionali di tipo strutturale.
Un lavoro difficile e di lunga lena.

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