Durante la campagna elettorale per le politiche, la Lega aveva promesso di tagliare le tasse a tutti attraverso la realizzazione del sogno liberista incarnato dall’iniqua ‘flat tax’. Quello che invece è uscito dal calderone della legge di bilancio è qualcosa di assai diverso. Ora, con l’avvicinarsi della campagna elettorale delle europee, la flat tax, nella sua versione più estesa, torna sulla scena. Tramite dichiarazioni di Salvini e del sottosegretario allo Sviluppo Siri, infatti, la Lega rilancia, promettendo un’estensione della tassa piatta “alle famiglie”, ovvero ai redditi da lavoro dipendente. Ne è seguita una bagarre politica con i 5stelle sui costi della possibile operazione con cifre che oscillano dai 59 (rapporto del MEF) ai 12 miliardi annui (studio interno della Lega). Sembra che lo studio leghista si riferisca all’applicazione della flat tax per le sole famiglie con reddito da lavoro dipendente fino a 50.000 euro, una possibile variante al vaglio assai più contenuta nei suoi effetti distributivi e nei suoi costi. Ma al di là delle scaramucce tra i partiti di governo, prima di conoscere i dettagli dell’effettiva proposta della Lega (se mai ve ne sarà una definitiva), è interessante sondare alcuni umori sul tema fiscale riemersi all’improvviso nel pubblico dibattito. Si tratta di una buona occasione per fare ancora una volta il punto sulle iniquità presenti e future del sistema tributario in Italia.
Tra i vari commenti di questi giorni spicca quello del centro studi Confindustria che, sulle pagine del Corriere della Sera, scrive un breve ma significativo articolo in cui, dopo alcune condivisibili critiche alle distorsioni generate dall’imposta sui redditi, vede nella “vera flat tax” una possibile entusiasmante soluzione.
Ma andiamo con ordine: in Italia vige un sistema di imposte sui redditi incentrato sull’Irpef e sull’Ires. La prima colpisce i redditi delle persone fisiche (da lavoro dipendente, autonomo e di impresa), mentre la seconda colpisce i redditi delle società di capitali. La progressività delle imposte sancita dalla riforma del 1974 è stata drammaticamente ridotta nel successivo trentennio dominato dalle politiche liberiste al punto tale che oggi la distanza tra le imposte pagate da un reddito molto elevato e un reddito medio o medio/basso è molto esigua.
L’iniziale obiettivo critico del centro studi Confindustria sembra proprio essere la perdita di progressività dell’Irpef nel tempo. Citiamone un passo significativo: “L’Irpef è ormai un’imposta irrazionale e sempre meno progressiva, tanto che sembra aver perso il principio della solidarietà su cui fu fondata”. Bene, da sottoscrivere. E si insiste: “L’aggrovigliato intreccio tra aliquote nominali e scaglioni, deduzioni e detrazioni, addizionali, ma anche bonus determina condizioni paradossali per cui aliquote medie diverse si applicano tra contribuenti con lo stesso reddito ma lavori differenti. Andamenti contraddittori e irrazionali dell’imposta si evidenziano anche lunga la scala dei redditi. In prossimità della fine della no tax area e dei cambi di scaglione si può osservare un sali e scendi repentino delle aliquote marginali effettive. Al superamento della soglia di esenzione, e per effetto delle addizionali locali è possibile registrare aliquote oltre il 100%: un vero e proprio disincentivo al lavoro.”
La critica sinora è puntuale e impeccabile. Entriamo, però, nel merito.
L’Irpef attuale è strutturata su 5 aliquote attribuite a 5 scaglioni di reddito ed ogni scaglione entra al margine nel computo dell’imposta finale da pagare. Detto in soldoni, come si può vedere nella tabella sottostante, fino a 15.000 si paga il 23%, da 15.000 a 28.000 il 27% etc. Se ho un reddito di 35.000 euro lordi annui pagherò quindi il 23% sui miei primi 15.000, il 27% sui successivi 13.000 (da 15mila a 28mila) e infine sugli ultimi 7.000 euro pagherò il 38%.
Scaglioni IRPEF | Aliquote |
Fino a 15.000 | 23% |
da 15.000 a 28.000 | 27% |
Da 28.000 a 55.000 | 38% |
Da 55.000 a 75.000 | 41% |
Oltre i 75.000 | 43% |
Si perviene così alla cosiddetta imposta lorda. Il sistema prevede poi delle detrazioni ad hoc che variano a seconda della categoria lavorativa (da lavoro dipendente, da lavoro autonomo e da pensione) che vanno sottratte all’imposta lorda per ottenere l’imposta netta. Essendo le detrazioni decrescenti al crescere del reddito, la loro applicazione rafforza la progressività e garantisce una fascia di esenzione fiscale che per il lavoro dipendente è pari a circa 8.200 euro e per quello autonomo a 4.800 euro.
Questo sistema presenta delle forti iniquità e distorsioni. Da un punto di vista più generale, basta rilevare come moltissimi redditi ad oggi sono sottratti alla progressività tramite l’assoggettamento ad imposte diverse (società di capitali, rendite finanziarie, rendite da affitto, regime dei minimi per lavoro autonomo di recente ampliato a 65.000 euro). Andando più nello specifico, ovvero nella struttura stessa dell’imposta, possiamo rinvenire macroscopiche iniquità.
La prima cosa che salta agli occhi è il fatto che non solo le cinque aliquote sono assai poco distanziate tra di loro (dal 23% al 43%), ma si associano anche ad una forbice di redditi molto limitata (da zero a 75.000). Impressionate se si pensa che nel 1974 esistevano 32 scaglioni spalmati su fasce di reddito fortemente distanziati, da 0 a redditi milionari. Questo significa che, oltre i 75.000 euro annui lordi tutti pagano la stessa imposta equiparando così un reddito lordo alto, ma non stellare a qualsiasi altro reddito elevato o persino milionario esistente oltre tale soglia. Inoltre, pur considerando le detrazioni, si osserva facilmente come fasce di reddito assai eterogenee che dipingono scenari di benessere molto diversi ricadano sotto la stessa aliquota marginale (ad esempio da 15mila a 28mila o da 28mila a 55mila); mentre d’improvviso oltre le soglie fissate vi sia un salto di aliquota enorme (clamoroso quello dal 27% al 38%). Ciò da un lato concentra il carico fiscale di fatto sui redditi medio-bassi o medi (la vera salita incisiva infatti è soltanto fino al 38%), dall’altro crea, come ben rilevato dall’articolo citato, salti e distorsioni che portano in alcuni scatti l’aliquota marginale effettiva (intesa come l’imposta pagata sull’euro in più guadagnato) a livelli molto elevati e sproporzionati rispetto all’aliquota ricadente sull’euro precedente creando in effetti situazioni paradossali. In altri termini, ogni euro che guadagno (oltre i 15.000 euro) fino a 28.000 euro viene tassato al 27%. Se guadagno anche soltanto un euro in più (28.001 euro), quell’euro mi viene tassato al 38%, senza differenze rispetto a “tutti gli euro” che guadagno, fino a 55.000.
Ebbene per far fronte a questa bolgia di distorsioni e a questa manifesta perdita di progressività a tutto danno dei lavoratori e dei redditi più bassi, onestamente riconosciuta nell’articolo, cosa propone l’autrice? Proprio la flat tax, ossia la fine conclamata di ogni pur timido accenno alla progressività dell’imposta. E non la flat tax stracciona del governo pentaleghista, buona solo per un po’ di partite IVA, ma proprio “la vera flat tax”, quella per tutti, lavoratori, imprese e grandi società contenuta nel programma del centro-destra e in particolare nel programma della Lega nella versione al 15%.
Insomma, si individua la malattia del sistema fiscale nella perdita della progressività e nelle sue inique distorsioni e come cura si prospetta direttamente la morte del paziente, ovvero la fine della progressività. Non male! Evidentemente la manifesta incongruenza logica serve solo come artificio retorico per portare un’acqua fatta di argomentazione di buon senso, condivisibili da qualsiasi lettore, al mulino di un progetto fiscale sempre più regressivo cui Confindustria, risorse e austerità permettendo, da sempre strizza l’occhio e rispetto al quale, in verità, già ha ottenuto larga parte dei risultati auspicati negli anni passati con la neutralizzazione della progressività tramite vari espedienti. Un processo, quest’ultimo, che è stato possibile anche con la complicità delle progressive liberalizzazioni dei movimenti di capitale nel contesto europeo, che, da un lato, hanno facilitato la ricerca, da parte degli imprenditori, di regimi fiscali di maggior favore e, dall’altro, hanno costituito l’artificio retorico mediante il quale una classe politica complice ha potuto giustificare la riduzione della progressività delle imposte.
Ciò che serve davvero ai lavoratori e alle classi subalterne, in totale controtendenza rispetto alle proposte della Lega e degli industriali, è una ricostruzione integrale del sistema fiscale su fondamenti integralmente progressivi, essenzialmente basata su due pilastri:
1- la ricomprensione di tutti i redditi sotto il cappello della progressività riassorbendo tutti quei redditi da capitale che oggi ne sono di fatto esclusi;
2- la costruzione di un sistema di aliquote fortemente progressivo che anziché prevedere scaglioni a salti sia basato su una funzione continua crescente al crescere del reddito, con una forte gradualità di crescita delle aliquote specie nell’ambito dei redditi bassi e medio bassi e la ricomprensione di una scala di redditi associati alle aliquote crescenti infinitamente più ampia di quella esistente oggi.
2- la costruzione di un sistema di aliquote fortemente progressivo che anziché prevedere scaglioni a salti sia basato su una funzione continua crescente al crescere del reddito, con una forte gradualità di crescita delle aliquote specie nell’ambito dei redditi bassi e medio bassi e la ricomprensione di una scala di redditi associati alle aliquote crescenti infinitamente più ampia di quella esistente oggi.
Soltanto in questo modo sarà possibile ricostruire un sistema fiscale che sia non solo giusto, ma anche funzionale al sostegno della domanda aggregata e dell’occupazione, dal momento che i percettori di redditi più bassi hanno una più alta propensione media al consumo, ovvero consumano il proprio reddito in percentuale assai più elevata rispetto ai soggetti più ricchi. Ciò comporta che una redistribuzione dall’alto verso il basso produce sempre un aumento dei consumi aggregati. Inoltre, una minor disoccupazione, in ultima analisi, si associa ad un aumento dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori dando luogo così ad un vero e proprio circolo virtuoso favorevole alle classi attualmente più svantaggiate dalla dominanza pressoché incontrastata dell’ideologia liberista. Lottare contro la flat tax significa, dunque, prendere posizione, nella lotta di classe, a favore di un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Per questa ragione è necessario contrastare in ogni modo le politiche del governo gialloverde, che giorno dopo giorno si rivela sempre di più nemico dei lavoratori e portaborse degli interessi dominanti.
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