global project Anna Irma Battino, Marco Sandi
17 / 2 / 2018
Essere in piazza oggi a Roma
era un dovere. Essere al fianco del popolo curdo, soprattutto in un
momento storico come questo, significa essere al fianco di chi è in
prima linea contro il fascismo.
Un
tema molto caldo nell’ultimo periodo - in tutta Italia e sotto campagna
elettorale - quello del fascismo; un tema molto attuale nelle sue
diverse sfaccettature e nei diversi modi in cui lo stiamo vedendo
fronteggiare, da Macerata a Piacenza, da Padova a Bologna. Se
è vero che le piazze italiane non possono essere comparate con quelle
turche, è però vero che il fascismo italiano può, e deve, essere
trattato come il fascio-islamismo turco.
Non vi è alcuna differenza tra
chi pretende di governare attraverso la paura e la violenza e chi la
pratica per garantirsi agibilità politica. Non vi è alcuna differenza
tra chi, indottrinato a dovere, compie un attentato nel centro di Parigi
e chi, altrettanto indottrinato, impugna una pistola e spara a delle
persone in una piccola provincia del centro Italia. Non vi è differenza
da chi viene ammaestrato dentro una moschea e chi invece istruito a
dovere nella sede di un partito politico. Il lavaggio del cervello e
ricevuto sono esattamente gli stessi, così come uguali cono le forme e
le pratiche. Non serve essere degli esperti per riconoscerlo, visto che
la bandiera che questi sventolano è dello stesso colore nero.
Il merito di una manifestazione come quella di oggi a Roma è stato quello di mettere in connessione quanto sta succedendo nelle piazze delle città italiane con quello che succede in Medio Oriente, dove una straordinaria resistenza permette alla rivoluzione curda di sopravvivere, in particolare nel Cantone di Afrin, attaccato militarmente dalla Turchia.
Forse non serve scomodare precedenti, non serve evocare uno spirito di
emulazione, ma sicuramente va ricordato che queste persone non hanno
nulla da perdere e sono pronte a tutto pur di difendere la propria
terra, e Kobânê e la sua storia dovrebbe essere
un’importante monito per chiunque. «Se voi fate come l’Isis, noi faremo
come Kobânê» avvertivano i curdi, scrivendolo sui muri delle città del
Kurdistan Bakur; «Ieri Kobânê, oggi Afrin» veniva ricordato durante gli
interventi al corteo.
La manifestazione di oggi aveva diverse parole d’ordine, una della quali si concentrava sulla libertà di Abdullah Öcalan e di tutti i prigionieri politici in Turchia. Erdogan
sembra aver fatto scuola nell’ultimo periodo. Se è vero che in Turchia
le libertà democratiche sono ormai sparite dietro lo scettro della
repressione poliziesca da ormai molti anni, assistiamo negli ultimi
giorni a colpi di coda della suddetta spirale repressiva. Centinaia di
persone sono state arrestate semplicemente per aver osate criticare
l’operato governativo nell’ambito dell’operazione militare contro Afrin.
Si fa presto ad ergersi campioni nostrani della democrazia condannando
le contestazioni ed esprimendo solidarietà verso chi le riceve in
piazza, ma dall’altra parte, in nome di un’inspiegabile e insensata
ragione di Stato, stringe la mano ad un dittatore sanguinario che la
democrazia da tempo l’ha nascosta sotto lo zerbino d’ingresso.
È altresì
assurdo che una manifestazione annunciata come pacifica e che chiede la
fine di un’aggressione venga intimidita ai caselli dell’autostrada con
controlli, perquisizioni e militarizzazione delle piazze. Sembra proprio
che nell’incontro romano di qualche giorno fa Erdogan abbia
catechizzato per bene la controparte italiana sul controllo del
dissenso. Tutto senza che una voce contraria si sia alzata a livello
istituzionale.
Il paragone tra Italia e Turchia
è molto forzato, forse esagerato, ma i fatti delle ultime settimane
nella nostra penisola non sembrano smentirlo del tutto. Mentre oggi si
chiedeva la liberazione di Öcalan e degli altri prigionieri, si alzava unito il coro per chiedere la liberazione dei tre attivisti arrestati ieri per i fatti di Piacenza, dove avevano messo in prima linea i loro corpi per fermare l’apertura di una sede di Casa Pound. Esattamente come fa in Kurdistan chi lotta quotidianamente per fermare l’avanzata reazionaria delle forze militari turche e dei suoi alleati jihadisti.
Le piazze antifasciste
sono quelle più duramente represse nell’ultimo periodo, come dimostrano
le violenti cariche a Bologna ieri, e questa criminalizzazione porta a
una pericolosa delegittimazione dall’alto dell’antifascismo. Allo stesso
tempo vediamo emergere nuove resistenze, soggettività e spazi politici
aperti dal basso.
Quando guardiamo all'internazionalismo - e all’esperienza curda in particolare - non possiamo non parlare di antifascismo e non fare un paragone.
E
forse da quello spirito di resistenza che Afrin sta mettendo in campo,
dovremmo continuare ad attingere e non abbassare la testa.
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