Piccolo
breviario per replicare pacatamente ai tanti “sinistri” incapaci di
uscire dalla narrazione del potere. Quella per cui se sei contro
l’Unione Europea, persegui la sua rottura (euro e Nato compresi), allora
sei un “sovranista”, “nazionalista”, tendenzialmente di destra o
rossobruno.
Abituati
a polemizzare sulle parole, senza mai curarsi della realtà (specie
internazionale), i “sinistri” nostrani si sono ridotti a fare i tifosi
in partite che li vedono come puri spettatori di uno sport con regole
incomprensibili.
Questo
breviario può aiutare a disperdere qualche nebbia e far tornare la luce
anche negli intelletti più spenti. Se non basta, potete rileggervi la discussione tra Mélenchon e la delegazione di Potere al Popolo.
Infine segnaliamo l’appuntamento di Roma di sabato 3 febbraio con la
giornata di discussione dedicata a “Rottura dell’Unione Europea e
sovranità economica” convocata da Eurostop per confrontarsi insieme a
tutte le componenti di Potere al Popolo.
Se non basta nemmeno questo, rivolgetevi a padre pio….
******
1. Europa e Unione Europea: due cose molto diverse
Essere
contro la UE significa esserne contro le istituzioni e contro i
Trattati, non certo contro l’idea popolare (o addirittura geografica!)
di Europa. I Trattati sono proprio quelli che impongono ai popoli
europei un’austerità perenne: dal Trattato di Maastricht, a quello di
Lisbona, al 6-Pack e 2-Pack al Semestre Europeo, sono tutti pezzi
dell’istituzionalizzazione dell’austerità, basata su criteri economici
arbitrari e che conducono al “pilota automatico” in caso di sforamento,
ovvero al totale esautoramento delle istituzioni democratiche. Le
istituzioni sono una Banca Centrale Europea il cui unico obiettivo è
quello del contenimento dell’inflazione e non dell’aumento
dell’occupazione, la Commissione Europea non è eletta democraticamente
dai popoli europei ma riflette i rapporti di forza fra i vari Paesi,
perfino il Parlamento Europeo che dovrebbe essere il luogo per
definizione dove si attua la sovranità popolare non ha niente di
democratico: non esprime né può controllare la Commissione, non ha
diritto di proporre leggi, non è realmente responsabile di fronte agli
elettori; in pratica la sua unifca funzione è ratificare le decisioni
della Commissione dandogli una patina di finta democraticità. Se quindi
vogliamo trarre delle conclusioni, UE dei trattati e Europa dei popoli
sono in aperta contraddizione!
2. Rompere o riformare i Trattati
Ma
se il problema della UE sono i Trattati e le istituzioni, perché
“romperli” quando possono essere “cambiati”, ovvero riformati
democraticamente? Semplicemente, perché il meccanismo istituzionale
interno alle UE rende la modifica dei Trattati impossibile. I Trattati
(che generano anche le istituzioni) sono deggli accordi internazionali
fra governi, e possono essere cambiati solo all’unanimità dei Paesi
membri. Non possono essere cambiati dal Parlamento, né dalla
Commissione, né da una maggioranza di paesi all’interno del Consiglio
d’Europa. Vuol dire convincere tutti ma proprio tutti i governi di tutti
i Paesi membri che i Trattati sono sbagliati e le istituzioni
antidemocratiche. La Germania, ovvero il blocco politico-industriale
tedesco, potrebbe mai cedere su una posizione che le concede un
controllo sugli altri paesi europei quasi incontrastato? Evidentemente
no. Anche per questo non ha nessun senso l’indicazione di spingere verso
una “maggiore integrazione europea” o alla scrittura di una
“Costituzione Europea”: anche qua, l’unica possibilità di sviluppare una
maggiore integrazione-cooperazione sotto una Costituzione Europea
portatrice di istanze sociali quale quella italiana vuol dire prima di
tutto rompere con i Trattati attuali, ovvero con la UE stessa.
3. Il “blocco mediterraneo” per cambiare i rapporti di forza
Se
non ci può essere un cambiamento democratico-istituzionale, si potrebbe
provare una lotta che parta da un ribaltamento all’interno dei rapporti
di forza fra i paesi UE: un blocco compatto dei paesi mediterranei in
senso anti-austerità potrebbe imporre alla Germania la modifica dei
Trattati. Il problema è di coordinamento! Quanto bisognerebbe aspettare
affinché in quattro-cinque dei paesi mediterranei si esprimessero
contemporaneamente dei governi fortemente progressisti e in aperta
rottura con le politiche della UE? 1 anno, 5 anni, 50 anni? I governi
vanno e vengono, non è realistico pensare che una volta che un governo
progressista prenda il potere in un Paese, non potendo cambiare reali le
condizioni di vita della popolazione in quanto costretto dalle
politiche di austerità, possa resistere elettoralmente finché anche gli
altri Paesi del mediterraneo aderiranno alla sua linea! E se anche per
magia questo coordinamento si riuscisse a ottenere in breve tempo, come
potrebbe reagirebbe questo blocco di fronte a un veto della Germania, se
non uscendo appunto in blocco? Allora tanto valeva uscire prima, anche
singolarmente, e “dare il buon esempio” agli altri. Certo, le
organizzazioni politiche e sindacali di sinistra progressista e di
classe devono lottare insieme e lavorare sempre di più per portare
avanti un progetto politico comune, ma questo non vuol dire stare fermi
finché non ci si riesce a muovere tutti insieme!
4. Una questione economica: uscire dall’Euro senza uscire dalla UE?
Se
i problemi sono prevalentemente di carattere economico, non basterebbe
uscire dall’Euro e però mantenersi dentro l’Unione insieme agli altri
Paesi? No per diversi motivi: i Paesi membri sono inseriti in un
percorso che porta all’adozione dell’Euro, quei Paesi che non l’hanno
ancora adottato sono “in deroga temporanea”; i caratteri economici non
riguardano soltanto la moneta, ma anche i parametri dei vari vincoli di
bilancio, quindi sono di tipo fiscale; una riconquista della sovranità
monetaria (la possibilità di svalutazione ecc.) non comporterebbe un
miglioramento dell’economia senza un intervento sulle altre questioni, a
partire proprio dai nodi dei vincoli di bilancio; infine, i problemi
non sono unicamente di carattere economico, ma anche politico, per la
natura antidemocratica delle istituzioni UE. Non basta uscire dall’Euro,
bisogna anche uscire dalla UE. Questo non vuol dire annullare tutte le
forme di cooperazione economica (a partire dal commercio di beni) fra i
Paesi europei, ma vuol dire che i popoli europei possano tornare a
essere democraticamente sovrani della gestione economica dei loro Paesi.
5. Guerra e pace, UE e NATO
“È
vero, economicamente la UE è un disastro, ma ha garantito la pace in
Europa per settant’anni”. Serve davvero un’istituzione che opprime e
saccheggia i popoli europei per garantirne la pace? E siamo sicuri che
viviamo “in pace”? Per quanto vogliano farci credere che sia la UE a
mantenere la pace, questa Unione fortemente di carattere
economico-liberale si costituisce soltanto nel 1994 col Trattato di
Maastricht, mentre fino al ’94 “questa pace” è stata garantita da una
forma stabile di cooperazione, prevalentmente economica, fra i Paesi
membri, senza però le imposizioni di un’istituzione sovranazionale che
ne svuotasse i luoghi decisionali democratici. E poi di quale pace
stiamo parlando? Diversi studi quantificano gli effetti economici e
sociali dell’austerità per Paesi quali la Grecia e l’Italia più
devastanti di quelli della Seconda Guerra Mondiale; nel 1991 i governi
europei dopo avere favorito la destabilizzazione della Jugoslavia
intervengo in un fronte compatto sotto l’egida della NATO con pesanti
bombardamenti; intervengono ancora in Libia nel 2011 destituendo e di
fatto condannando a morte Gheddafi aprendo la strada alle milizie
jihadiste; nel 2013 supportano il movimento europeista ucraino di piazza
Maidan a forte trazione fascista, favorendo una guerra civile e
supportando il governo di Kiev con componenti dichiaratamente naziste.
Per non parlare degli interventi diretti nello scenario siriano, la
vendita di armi a paesi in guerra o riconosciuti come sponsor del
terrorismo internazionale (in particolar modo l’Arabia Saudita). E
ancora, l’importanza della proiezione militare della UE è dimostrata
dalla forte spinta per l’unificazione di un esercito comune europeo (la
Germania si è già messa avanti unficiando sotto il suo comando gli
eserciti di diversi Paesi dell’est Europa), e dalle spese militari che
sono l’unica parte dei conti pubblici non soggetti alle restrizioni dei
vincoli di bilancio: non si può fare debito per l’istruzione, la sanità o
il lavoro, ma soltanto per rafforzare l’esercito. Anche per tutti
questi punti, per la questione della pace e del non-interventismo
militare non basta rompere con la UE, ma bisogna anche rompere con la
NATO, che ci impone di spendere 80 milioni al giorno per le spese
militare e che è la prima responsabile della nuova strategia
espansionistica verso est, rafforzando una pericolosissima tensione con
la Russia di cui i paesi europei sono i primi a rimetterci.
6. Fortezza Europa: migranti e diritti umani
Insieme
alla falsa retorica della pace, spesso si disegna la UE come unico
argine al devastamento dei diritti umani, costruendo un balzano dualismo
nazionalismo-razzismo vs. europeismo-accoglienza. La falsità di questa
visione è sotto gli occhi di tutti: negli ultimi anni sono morti nel
Mediterraneo decina di migliaia di migranti a causa delle politiche di
chiusura delle frontiere esterne di quella che si è chiamata la Fortezza
Europa. La UE ha stretto degli accordi terribili per il contenimento
dei flussi migratori, quali quello con la Turchia e con le milizie
libiche, entrambi ampiamente riconosciuti assassini e torturatori: la UE
paga degli aguzzini per tenere lontano i migranti. Per quelli che
riescono ad arrivare il trattamento non è migliore: chiusi in centri di
detenzione senza alcuna legittimità giuridica, sovraffollati e senza la
possibilità di curarsi, né di lavorare per migliorare la propria
condizione. Il Trattato di Dublino li umilia ulteriormente, privandoli
della libertà di movimento. Servono da una parte delle politiche sul
piano internazionale che annullino le ragioni dell’emigrazione, a
partire dalla fine delle guerre occidentali e dalla destabilizzazione di
intere regioni dell’Africa e del Medioriente e dello sfruttamento delle
loro risorse economiche, e che pongango fine agli accordi
internazionali criminali, dall’altra delle politiche interne ragionevoli
di accoglienza che sottraggano i migranti dalla violenza dei
trafficanti di uomini, dal business spesso mafioso dell’accoglienza, e
dallo sfruttamento lavorativo del caporalato. Politiche che la UE non
dimostra nessuna intenzione di volere realizzare.
7. La posizione anti-UE è di destra.
La
UE è un’istituzione sovranazionale che svuota i lugohi di decisione
democratica, è basata su Trattati fortemente neoliberali che impongono
un’austerità cieca, si sta dotando di strumenti militari sempre più
avanzati per portare avanti la sua proiezione imperialista, firma
accordi criminali per il flusso di migranti che non si fa scrupoli di
lasciare morire nel Mediterraneo. E sarebbero le posizioni anti-UE
quelle di destra? L’euroscetticismo di destra ha avuto una parabola
molto breve che dimostra un opportunisimo di questi partiti sul tema,
che però non vuole andare a risolvere realmente: i movimenti di destra
radicale quali la Lega Nord o il Front National in Francia hanno
sventolato per brevi periodi la lotta contro l’Euro, ma mai quella
contro la UE, e ora hanno smesso di fare anche quello. Le loro posizioni
razziste e xenofobe di chiusura delle frontiere non sono solo
compatibili con la UE, ma sono state addirittura superate proprio dalle
politiche di cui sopra. A oggi non c’è nessuna credibile proposta di
uscita dalla UE “da destra”, mentre è una battaglia assunta sempre di
puù dalle sinistre radicali di tutta Europa.
8. Uscire dalla UE sarebbe un disastro economico
Ovviamente
questo punto richiederebbe un trattamento tecnico specifico e
lunghissimo, per cui si può solo consigliare un approfondito numero de
Il Ponte sulla questione, dal titolo Un’Altra Europa. Una nota però va
fatta: l’uscita dalla UE permetterebbe a un Paese il recupero di quegli
strumenti di politica economica “classici” che gli Stati hanno usato per
decenni nella gestione della loro economia, e che in questo momento
sono appunto preclusi dalla UE. Si parla ovviamente della sovranità
monetaria (la possibilità di svalutare avrebbe degli effetti
generalmente positivi se acocmpagnata da una seria politica industriale)
ma non solo, del controllo politico sulla Banca Nazionale, sulla
possibilità di ricontrattare il debito (soprattutto nella sua parte di
tassi di interesse), lo strumento inflazionistico per creare lavoro, sul
controllo dei capitali e la nazionalizzazione dei settori strategici…
Insomma, lo Stato potrebbe e dovrebbe mettere in campo tutti quegli
strumenti normali di politica economica che ora gli sono impediti.
Ribadiamo inoltre che l’uscita dalla UE non vuol dire la totale chiusura
di collaborazione economica o commercio con gli altri Paesi europei, ma
uscire dall’oppressione dei Trattati. E poi c’è un elemento
controfattuale: la Grecia di oggi in cui i bambini muoiono di fame
sarebbe potuta stare addirittura peggio di così se nel 2015 avesse
attuato la Grexit? Tutti gli studi economici prevedono per l’Italia un
recupero economico che potrebbe durare decenni, non siamo già in un
disastro economico?
9. Sovranismo e internazionalismo
Il
ritorno al sovranismo è l’antitesi dell’internazionalismo, dicono.
Niente di più falso. L’internazionalismo ha a che fare con i rapporti
fra le organizzazioni di classe di tutti i Paesi al di fuori delle
istituzioni statali-borghesi. L’internazionalismo è fra i lavoratori,
fra i sindacati e fra i partiti comunisti, non fra i Paesi in sé (a meno
che non siano Paesi socialisti!) né fra i governi borghesi. La UE
invece è proprio questo, un’unione fra Paesi e governi capitalisti. Che
c’entrano i lavoratori e le classi subalterne in questo processo?
Niente! Al di fuori della retorica dell’Erasmus, la UE non sta in
nessuna maniera avvicinando nemmeno sentimentalmente i popoli europei,
anzi li sta allontanando, alimentando la competizione fra essi e la
lotta fra poveri: una forte campagna di disinformazione ha portato i
lavoratori tedeschi a vedere i lavoratori mediterranei (in particolare
greci) come quelli a cui devono pagare i debiti, alimentandone l’odio, e
i mediterranei ricambiano vedendo i lavoratori tedeschi, con un tenore
di vita solo relativamente migliore, come quelli che hanno tratto
vantaggio dalla crisi. Nella differenza e nella miseria è più facile che
covi rancore e divisione che non unità e solidarietà. D’altra parte,
non possiamo sacrificare la realtà di miseria dei popoli europei
sull’altare di una fantomatica solidarietà transnazionale che non
esiste. I lavoratori mediterranei e i lavoratori del nord Europa hanno
lo stesso nemico, che è quello del capitale europeo a trazione tedesca, e
per questo devono certo condurre una battaglia comune, ma colpendo ogni
qualvolta gli è possibile. Per questo bisogna ribaltare un vecchio
motto: marciare uniti, colpire separati!
10. Lotta alla UE e lotta al capitalismo
Infine,
forse il nodo più spinoso per i comunisti: se bisogna combattere il
capitalismo, la lotta contro la UE non è che una distrazione dannosa. Ma
che cosa è la UE se non il progetto del capitale europeo di
rafforzarsi? La storia stessa della creazione della Comunità Europea che
poi ha portato alla UE ce lo conferma: l’unificazione non è stata mossa
dai popoli europei, ma dai governanti, dagli industriali, dai
banchieri. Da chi è controllata in questo momento la UE, dai popoli e
dalle classi subalterne o dai capitalisti? Ma soprattutto, guardando in
avanti, chi sta portando avanti il processo di un’ulteriore stretta di
unificazione europea, i lavoratori o i capitalisti? E quindi chi avrà
più a beneficiarne se questo processo avanzerà e funzionerà? Essendo
queste risposte eccessivamente scontate, come si può dire che la lotta
contro la UE sia diversa dalla lotta contro il capitalismo? Certo,
l’uscita dalla UE non significa automaticamente l’instaurazione del
socialismo, ma significherebbe un cambiamento talmente epocale da aprire
uno scenario totalmente contendibile dalle organizzazioni di classe. Ma
soprattutto vorrebbe dire infliggere una sconfitta durissima al
progetto capitalista pari soltanto a quella imposta dalle lotte operaie
negli anni ’60-’70, o della sconfitta degli USA dal Vietnam. Nè si
potrebbe pensare materialisticamente di combattere contro un capitalismo
inteso in forma astratta, o contro il concetto di multinazionali o di
finanza: bisogna combattere contro le istituzioni capitaliste, siano
esse aziende multinazionali, governi o organizzazioni sovranazionali. Il
capitale europeo sta accelerando sul processo di unificazione per
garantire al tempo stesso una impostazione economica totalmente
neoliberale e una struttura istituzionale antidemocratica (svuotamento
dei luoghi della democrazia rappresentativa classica per spostare il
livello decisionale in organismi al di fuori di qualunque controllo
popolare) tale da mettere la governance di tale economia al riparo dalla
decisione dei cittadini-elettori: se infatti lo scopo è quello di
attuare appieno il neoliberismo, è evidente che una forma istituzionale
democratica lo metterebbe a rischio, in quanto la maggioranza della
popolazione sarebbe contraria. Questa accelerazione è necessaria al
capitale europeo per la sua sopravvivenza, ma al tempo stesso la espone
tantissimo, in quanto essendo questi processi appunto velocizzati la UE
non ha fisicamente il tempo per accompagnare questa feroce guerra di
classe dall’alto con strumenti ideologici e propagandistici (che siano
la retorica dell’Erasmus o piccole elargizioni di denaro a questa o
quella parte sociale) sufficienti a poterne contenere e controllare un
dissenso che si fa ogni giorno più forte. Nel momento di sua massima
espansione, il capitalismo europeo mostra la sua enorme vulnerabilità:
abbiamo un’occasione storica per dargli una mazzata colossale, una di
quelle occasioni che si presentano una volta sola ogni centinaio di
anni.
Nessun commento:
Posta un commento