di Karim El Sadi
E' passato esattamente un secolo da quando in Sudafrica il primo ministro sudafricano Jan Smuts pronunciò per la prima volta nel 1917 il termine Apartheid.
Apartheid in afrikaans significa separazione e inizialmente aveva l'obbiettivo di:
- separare i bianchi dai neri nelle zone abitate da entrambi
- istituzionalizzare i Bantustan, territori semi-indipendenti in cui molti neri furono costretti a trasferirsi.
Dal 1948 l'Apartheid prese forma e adottò ulteriori leggi che portarono mano a mano, fino al 27 aprile 1994 (quando con l'elezione di Mandela venne abolita completamente), alla negazione di ogni diritto politico e civile della popolazione nera sudafricana e alla segregazione raziale che tutti conosciamo.
Ma esiste un'altra Apartheid più longeva e decisamente più "velenosa" di quella sudafricana. Un'Apartheid silenziosa che in pochi hanno il coraggio di definire tale. Quella palestinese. L'Apartheid in Palestina ha radici vecchie quasi 70 anni, quando nel '48 gli ebrei approdarono sulle coste di Haifa, Akka e Gaza dando inizio all'esodo del popolo palestinese che fu costretto con la forza, dal neo-esercito d'Israele, ad abbandonare per sempre quelle terre. Da quell'anno i profughi palestinesi che raggiunsero il Libano, la Giordania e l'Egitto in cerca di un futuro, secondo l'UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione), sono 5.149.742. I palestinesi chiamarono il loro esodo Nakba (catastrofe in arabo), gli israeliani invece lo chiamarono Yom Ha' Azmut ovvero "Giorno dell'Indipendenza".
Alla Nakba è seguito un altro conflitto. La cosiddetta "Guerra dei Sei Giorni" (chiamata così per la sua breve durata) che vedeva da una parte Israele e dall'altra la coalizione araba. Il conflitto terminò con la vittoria schiacciante del neo-stato israeliano e con l'illegittima occupazione di nuovi territori tra cui la Striscia di Gaza, le Alture del Golan e la Cisgiordania. Nonostante le diverse risoluzioni dell'ONU che negli anni invitò più volte Israele a ritirarsi da quei territori occupati, il governo israeliano ha sempre declinato ogni esortazione. E oggi la situazione non è migliorata.
A 50 anni di distanza il clima è drasticamente peggiorato. Dop la Prima e l'inizio della Seconda Intifada, nel 2002 Israele innalza un muro in Cisgiordania, contro ogni diritto internazionale, che separa questa regione dal territorio israeliano. Il muro avrebbe avuto la funzione di “impedire l'intrusione di terroristi palestinesi nel territorio d'Israele”. Gli israeliani chiamano il muro "chiusura di sicurezza", un nomignolo che cerca in qualche modo di addolcire la disumanità di quello che in realtà è una barriera di cemento armato lungo oltre 730 km e alto 8 m, gli arabi invece insieme a gran parte della comunità internazionale lo chiamano “muro della vergogna” o “muro della separazione razziale”. Ma vediamo cosa accade all'interno della Cisgiordania l'altra area che insieme alla Striscia di Gaza costituisce (almeno in teoria) i legittimi territori palestinesi. Al di là del muro vivono 2,5 milioni di persone per una superficie di 5.860 kmq. Si potrebbe pensare che gli abitanti di tale superficie siano tutti arabi palestinesi. E invece non è affatto così. Circa 600mila residenti in Cisgiordania sono israeliani che vivono in insediamenti illegali (pluricondannati da risoluzioni ONU), ovvere terre di palestinesi confiscate dalle autorità israeliane destinate a nuovi illeciti inquilini (naturalmente israeliani) e che, ancora oggi, aumentano di numero e abitanti ogni giorno!. E in una Apartheid fatta di barriere, isolamenti e occupazione la pace non è affatto facile da mantenere. Questi 5.860 kmq sono amministrati e governati sia dall'Autorità Palestinese, la OLP, sia dal governo israeliano il quale la fa da padrone controllando gli accessi nella regione, la gestione di beni primari quali acqua e luce di diverse aree e soprattutto la sicurezza dove Israele ha impiegato l'esercito (L' I.D.F) per controllare e monitorare le attività di ogni singolo cittadino palestinese.
Ma veniamo al punto. Si potrebbe definire la situazione odierna in Palestina una specie di Apartheid? La risposta è si.
In un documento presentato il 15 marzo 2017 (successivamente ritirato) la Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (Escwa) ha accusato Israele di aver stabilito un “regime di apartheid che opprime e domina il popolo palestinese”. Gli autori del documento in questione, Virginia Tilley, prof.ssa dell’Università dell’Illinois e Richard Falk, inviato speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, paragonano ripetutamente le politiche dello stato israeliano nei confronti dei palestinesi a quelle del Sudafrica segregazionista, ricordando come i crimini di Apartheid siano secondi per gravità solamente a quelli di genocidio. Il solo essere "non cittadino ebreo", ad esempio, comporta ricevere spesso un trattamento completamente diverso (in senso negativo) di chi invece è cittadino ebreo. Inoltre, matrimoni misti tra ebrei e non ebrei sono proibiti per legge e la libertà di espressione in Cisgiordania è gravemente attaccata poiché “ogni giornale palestinese deve richiedere un permesso militare e ogni articolo dev'essere pre-approvato dalla censura militare israeliana”.
La lista di episodi di carattere segregazionista e discriminatorio è lunga. Per esempio, il diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica è negato dalla legislazione militare di Israele, che vieta assembramenti pubblici di dieci o più persone sul territorio palestinese se non precedentemente autorizzati da un permesso di un comandante militare israeliano. Per di più molti giornalisti o semplici attivisti palestinesi sono sottoposti a incarcerazioni senza processo, vengono torturati e in alcuni casi subiscono uccisioni extragiudiziali. E parlando proprio di processi e incarcerazioni Israele applica senza vergogna un sistema giuridico con “due pesi e due misure”. Esiste in Israele una persecuzione giudiziaria: i palestinesi, dai 12 anni in su, vengono arrestati dalla polizia e dai militari israeliani senza alcun motivo e trasferiti in carceri di massima sicurezza in detenzione amministrativa, per giorni, mesi o anni senza un capo d'accusa da cui l'accusato possa difendersi, senza poter vedere parenti o amici. Sono stati documentati anche casi di torture ai minori.
Israele è inoltre accusata di negare sistematicamente il diritto alla libertà di movimento dei palestinesi a causa dei numerosi checkpoints (posti di blocco), delle strade percorribili dai soli cittadini ebrei e del muro di segregazione citato prima. Un elemento centrale del regime di Apartheid imposto dallo Stato ebraico è connesso alle sue politiche di “ingegneria demografica” che concedono agli ebrei di tutto il mondo il diritto di entrare in Israele e ottenere la cittadinanza israeliana a prescindere dal loro paese di origine, senza dover dimostrare precedenti legami con Israele. Questo stesso diritto è negato ai milioni di profughi palestinesi espulsi con la nascita dello Stato ebraico, ancora in possesso di certificati di proprietà che documenterebbero il loro legame con il paese.
Infine vi è la questione più preoccupante, la Striscia di Gaza. La Striscia di Gaza, è un fazzoletto di terra lungo il Mediterraneo larga pochi chilometri strettamente assediata dai militari israeliani, dove vivono quasi due milioni di Palestinesi. A Gaza nessuno entra e nessuno esce senza il consenso di Israele, il quale fa di tutto pur di ostacolare ogni tipo di sostegno umanitario per la popolazione di Gaza. Anche per questo motivo la Striscia di Gaza è stata descritta come la “più grande prigione a cielo aperto del mondo”. Per di più Israele esercita uno stretto controllo della popolazione assediata, e negli ultimi anni ha scatenato tre offensive militari che hanno provocato oltre 3500 morti. Solo nell'ultimo conflitto, denominato “Protective Edge” avvenuto nell'estate del 2014 e durato solo un mese e mezzo, sono morte 2.139 persone di cui 490 bambini. E se non sono le bombe che piovono sulle case dei “Gazawi” (gli abitanti di Gaza) ad uccidere, Israele ha trovato altri modi per rendere un icubo l'esistenza di ogni cittadino palestinese. Da tempo infatti è in atto una “guerra silenziosa”che non fa rumore ma che comunque miete vittime e rende le vite dei Gazawi un inferno. Questa “guerra” prevede ogni limitazione, rallentamento o privazione possibile di ogni fonte o forma di approvvigionamento da parte delle autorià israeliane, che ne hanno il totale monopolio, ai danni delle famiglie palestinesi. I quasi due milioni di abitanti di Gaza hanno solo il 3% di acqua adatta al consumo umano, inoltre l’Autorità energetica di Gaza ha affermato recentemente che la crisi nella regione ha raggiunto i massimi storici, con solo due ore di elettricità al giorno fornite per la maggior parte delle case. Le infrastutture sanitarie sono state in gran parte danneggiate dai bombardamenti così come le scuole. In questo quadro generale la comunità internazionale non fa molto per aiutare questo popolo e quel poco che fa o non viene accettato dal governo israeliano, come le diverse risoluzioni emanate e puntualmente rifiutate, o viene respinto, come le innumerevoli camionette contenenti aiuti umanitari di primo ordine rispediti indietro da Israele. Quanto alla disoccupazione la percentuale è tra le più alte al mondo, scrive la Ong Oxfam. Questa è la condizione di segregazione che tutt'oggi 4,5 milioni di palestinesi sono costretti a subire solo perchè chiedono al mondo di avere un'identita una nazione e una terra nella quale riconoscersi. Ma tutte queste ingiustizie continueranno fin quando il pianeta non si sveglierà e smetterà di chiamare Israele “l'unica democrazia in Medio Oriente”. Sarebbe di fondamentale importanza ricordare le parole che pronunciò un giorno un uomo molto saggio: “la nostra libertà è incompleta senza la libertà del popolo palestinese”.
Nelson Mandela
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