mercoledì 27 dicembre 2017

Perché il “Warning to Humanity” sbaglia analisi (e soluzioni) della crisi socio-ecologica globale – di Salvatore De Rosa e Jevgeniy Bluwstein

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Pubblichiamo, a cura di Salvatore De Rosa, la traduzione di un articolo apparso alcuni giorni fa su Entitle blog.
Il “Warning to Humanity”, l’avvertimento all’umanità firmato da più di 15.000 scienziati, intima all’azione per salvare il pianeta proponendo un ambientalismo elitario e ignorando i veri obiettivi. Invece, gli scienziati dovrebbero analizzare le radici della crisi socio-ecologica e unirsi alle lotte ambientali di base che spingono per cambiamenti strutturali dal locale al globale.
Il recente “Warning to Humanity” di Ripple et al (appello, ammonimento o esortazione all’umanità), sottoscritto da più di 15.000 scienziati (di cui 280 da istituzioni italiane), ha ricevuto una vasta eco globale sui media mainstream. Secondo tale invito all’azione, la minaccia di un collasso ambientale globale a causa del superamento di diversi limiti planetari è il futuro che attende l’intera umanità a meno che le “urgenti misure” delineate nell’articolo non vengano immediatamente poste in essere.
Tali misure, in sintesi, sono: conservazione e ripristino degli habitat naturali (incluso il rewilding), educazione della popolazione all’apprezzamento della natura e alla cultura ecologica, riduzione dei tassi di fertilità, aumento delle tecnologie e dei consumi green, eco-tasse per incentivare comportamenti ecologici, energie rinnovabili e, sottolineato con forza, gestione oculata delle dimensioni della popolazione mondiale.
Questo secondo avvertimento reitera il primo pubblicato 25 anni fa dalla Union of Concerned Scientists, firmato a suo tempo da più di 1.700 scienziati, che metteva in guardia l’umanità sulla sua “traiettoria di collisione con il mondo naturale”, proclamando la necessità impellente di “cambiamenti radicali” nelle relazioni delle società con gli ecosistemi della Terra. Il punto focale dell’avvertimento del 1992 erano i limiti: le capacità limitate della biosfera di tollerare gli impatti umani e i limiti che gli scienziati proponevano di imporre alla crescita della popolazione, alle emissioni di gas serra, alla deforestazione e alla perdita di biodiversità, così da “salvare il pianeta”.
Il nuovo, secondo avvertimento ammette che “con l’eccezione della stabilizzazione dello strato di ozono stratosferico, l’umanità ha fallito nel compiere sufficienti progressi per la risoluzione di sfide ambientali ampiamente previste e, in modo preoccupante, molte di queste sono di gran lunga peggiorate”. Per questo la necessità di un “secondo richiamo”, questa volta sottoscritto da molti più scienziati. Nonostante il tempo passato, però, la ricetta per la salvezza non è cambiata di molto e, specialmente, il nuovo avvertimento ricalca gli assunti errati che gravavano sul primo.
Nel profilarsi dell’Antropocene – una definizione contestata, accanto ad altre proposte per nominare la nostra era – questa potrebbe sembrare un’iniziativa importante e urgente. Tuttavia, qual è l’“umanità” cui si rivolgono tali integerrimi scienziati? Presumibilmente, l’intera umanità. Eppure, è ingannevole raccogliere sotto lo stesso termine i profili metabolici e socio-ecologici profondamente disuguali alla base delle vite di individui che si trovano ad altezze diverse della scala di emissioni e consumi pro-capite.
L’ecologia politica ci insegna che il modo in cui i problemi socio-ecologici sono inquadrati è esso stesso un’arena di scontro attraversata da rappresentazioni egemoniche e conflitti sociali. Per questo, ci preme interrogare quest’ennesimo avvertimento all’”umanità” e le annesse misure proposte nella chiamata all’azione. A nostro avviso, il suo errore fondamentale sta nella mancanza di un’analisi politico-economica ed ecologica delle relazioni e delle strutture di potere alla base della macchina economica globale che sta spingendo produzione e consumo oltre i limiti planetari.
La parola capitalismo non appare mai nel Warning, così come la parola neoliberismo. Senza fornire un’analisi delle cause sottostanti ai problemi del nostro tempo (ad esempio, perché le economie sono dipendenti dalla crescita illimitata?), gli autori e i sottoscrittori dell’avvertimento hanno trovato una capro espiatorio nella questione del “sovrappopolamento”, un tentativo nemmeno troppo velato – secondo Fletcher et al – di “distogliere l’attenzione dalle questioni sistemiche dell’economia politica dello sviluppo, che mostrano la futilità di perseguire uno sviluppo sostenibile all’interno di un contesto di capitalismo neoliberale che aggrava sia le disuguaglianze economiche che la degradazione ambientale” (Fletcher et al 2014).
Dove guardare, invece, per analisi rigorose e significative della crisi ambientale globale? Un esempio recente è il lavoro di Ulrich Brand e Markus Wissen. I due scienziati politici identificano le radici del problema non nelle “orde barbariche” e nello “spauracchio del sovrappopolamento”, ma nel “modo di vita imperiale” delle popolazioni ricche del Nord globale che si sta espandendo nelle classi medie e alte emergenti in tutto il mondo, facendo sorgere una sorta di classe consumista transnazionale (Brand e Wissen 2012).
Questo modo di vita si basa su “modelli prevalenti di produzione e consumo che fanno affidamento in maniera sproporzionata sulla forza lavoro globale, sulle risorse e sugli assorbitori di scarti” ed è sostenuto da un “accesso esclusivo alle risorse, garantito da contratti o attraverso l’aperta violenza e dall’esternalizzazione dei costi socio-ecologici che l’utilizzo di queste risorse comporta” (Brand e Wissen 2012). In altre parole, non serve iniziare dal contare le persone per capire le radici della crisi ambientale. Invece, ciò che importa sono i modi in cui la produzione, il consumo e la distribuzione sono organizzati e legittimati, e l’allocazione dei guadagni e delle perdite della società in diverse aree geografiche e in diversi gruppi di persone.
In effetti, vi sono ampie evidenze del fatto che l’UE, ad esempio, esternalizza in larga misura i suoi impatti ambientali nel Sud del mondo sotto forma di estrazione di risorse ed emissioni di CO2 (Sachs e Santarius 2007: 55-66; Martinez-Alier 2006; UNEP 2011a: cap.4). Un’altra scomoda verità è che apparentemente non è sufficiente fare appello a più istruzione ecologica per avvicinarsi a soluzioni concrete, come suggerito dal “Warning to Humanity”. Un’approfondita analisi dell’economia politica della crisi ambientale globale avrebbe il compito di districare il paradosso di più educazione = più uso delle risorse. Evidenze empiriche mostrano infatti che “persone con alti livelli di istruzione, redditi relativamente elevati e alta coscienza ambientale hanno il più alto uso di risorse pro capite” (Wuppertal Institute, 2008: 144-54 citato in Brand and Wissen 2012).
Non stupisce quindi che i conservazionisti, persone che di solito si pongono come portatori di alti valori morali, analogamente agli autori del Warning to Humanity, producano delle impronte ecologiche simili a quelle di altri gruppi benestanti (Balmford et al 2017). In breve, “essere esposti ad informazioni ambientali sembra avere pochissimo impatto sui comportamenti ambientalisti” (Balmford et al 2017). Pertanto, gli appelli moralistici al problema del sovrappopolamento e alla mancanza di istruzione sono del tutto fuori luogo. Quel che tali appelli ottengono è di additare come capri espiatori coloro che meno hanno contribuito alla genesi dei problemi in esame, perpetuando allo stesso tempo l’impressione che il modo di vita imperiale possa essere mantenuto.
Invece di attribuire la maggior parte delle colpe alle popolazioni del Sud del mondo (inquadrando la crisi socio-ecologica come un problema di “sovrappopolazione”), gli autori e i firmatari dell’appello avrebbero dovuto rendersi conto che intorno al globo si stanno già svolgendo numerose lotte contro gli effetti distruttivi del modo di vita imperiale. La miseria causata da cambiamenti socio-ambientali dannosi è qui adesso per molti gruppi sociali diseredati, emarginati e poveri il cui grido di battaglia è nel migliore dei casi ignorato e nel peggiore represso con la violenza. Basta sfogliare gli oltre 2200 conflitti socio-ambientali registrati nell’Atlante della Giustizia Ambientale Globale (e nella sua versione Italiana) per avere un’idea di come le lotte per “salvare il pianeta” siano in corso da tempo in molti luoghi.
I fronti sono diffusi e le barricate si alzano ogni giorno contro contaminazione, mega-progetti di infrastrutture per la produzione e diffusione di energia, fabbriche inquinanti, conservazione naturale coercitiva, agricoltura su larga scala e deforestazione. Piuttosto che allarmare l’umanità contro lo “spauracchio del sovrappopolamento” (Fletcher et al 2014), gli scienziati dovrebbero richiamare i più privilegiati tra noi a prendere parte a queste lotte. Inoltre, voci di condanna si dovrebbero levare per intimare istituzioni governative nazionali e internazionali di porre fine alla repressione dei difensori dell’ambiente, afflitti da minacce di morte, arresti, stupri, attacchi legali aggressivi, repressione poliziesca e intimidazioni di compagnie multinazionali.
I veri difensori degli ecosistemi non sono coloro che comprano equo&solidale, sostenibile o biologico, o quelli che viaggiano intorno al mondo per visitare parchi nazionali e riserve naturali. In prima linea ci sono coloro che proteggono le terre e gli ambienti dai quali spesso dipendono per vivere. Impegnati nella lotta contro industrie come l’estrazione mineraria, la raccolta di legname, il turismo e l’agribusiness, proprio quelle attività economiche che garantiscono la perpetuazione del modo di vita imperiale.
Gli “sforzi organizzati dal basso” cui il Warning to Humanity fa riferimento, non hanno bisogno di essere evocati. Miriadi di comitati popolari stanno già premendo dal locale al globale per cambiamenti strutturali. Coalizioni multi-locali, come Leave the Oil in the Soil, Ende Gelände, Zero Waste, o i nostri No Triv, stanno già facendo passi concreti che, attraverso l’intervento diretto sui modelli metabolici socio-ecologici in numerose località, e alimentando il conflitto contro lo status quo, provano a influenzare reti di produzione e consumo più vaste. Ciò di cui c’è bisogno è una generalizzazione di queste lotte, in cui gli scienziati possono ricoprire un ruolo fondamentale. A condizione, tuttavia, che essi offrano analisi approfondite delle radici dei problemi e un impegno condiviso per la giustizia socio-ecologica.
Salvatore De Rosa ha recentemente conseguito il suo dottorato di ricerca in ecologia politica all’Università di Lund (Svezia) con una tesi sull’ambientalismo popolare nei conflitti sui rifiuti in Campania. Scrive per Napoli Monitor ed è redattore di ENTITLE – Political Ecology Blog
Jevgeniy Bluwstein sta per conseguire il dottorato in ecologia politica all’Università di Copenhagen (Danimarca). I suoi interessi di ricerca includono le ecologie politiche, le geografie degli interventi di sviluppo e conservazione della natura e i conflitti sulla terre e le risorse.

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