mercoledì 27 dicembre 2017

Clima, come l’uomo rischia di sconvolgere il mondo: dall’isola che non c’è più alle Alpi senza più ghiaccio (e stambecchi).




Non ci sono solo i poli che si sciolgono. Il pianeta è messo alla prova con sconvolgimenti così profondi da mettere a rischio la vita dei suoi stessi abitanti. Come quelli dell'arcipelago delle Salomone che negli ultimi 60 anni hanno visto scomparire un'isola dopo l'altra. O come quelli dell'Africa meridionali falcidiati dalla siccità. O ancora come quelli dei Caraibi colpiti da Irma. O, molto più vicino, quelli di Livorno colpiti dall'alluvione o delle montagne devastate dagli incendi. Ecco, in 10 foto, cosa significa davvero il riscaldamento globale.
Palme e vento a Cuba
In Italia le temperature crollano sotto lo zero alla fine di un anno caldissimo e segnato dalla siccità. Dal Canada arriva il filmato dell’orso polare magrissimo e in fin di vita, alla vana ricerca di cibo, mentre il riscaldamento globale scioglie i ghiacci del suo habitat. Sono le immagini che in queste ultime settimane dell’anno hanno invaso i social network: diversissime, eppure due facce della stessa medaglia. Cartoline da un pianeta messo costantemente alla prova dai cambiamenti climatici e incapace di far fronte a sconvolgimenti così profondi, che sempre più spesso mettono a rischio la stessa vita dei suoi abitanti.
Tra i più preoccupati ci sono forse gli abitanti delle isole Salomone, che vedono il mare innalzarsi ogni anno e mangiarsi millimetro dopo millimetro la loro terra. Oppure il leopardo delle nevi dell’Himalaya e all’altro capo del mondo lo stambecco, che con l’aumento delle temperature assistono alla scomparsa del loro habitat e della loro possibilità di sopravvivenza. Ma i cambiamenti climatici interessano tutti: l’uragano Irma che a settembre 2017 ha devastato i Caraibi e gli Stati Uniti forse ci sarebbe stato comunque, ma probabilmente non avrebbe avuto la stessa violenza. E così la siccità che ha segnato l’estate scorsa in Italia, esponendola anche a centinaia di incendi, oppure la bomba d’acqua che si è abbattuta a Livorno il 10 settembre.

Sui cambiamenti climatici – ha scritto il gruppo di scienziati del panel Ipcc dell’Onu – l’influenza dell’uomo è “indiscutibile”. Ma ora sta avvenendo ad una velocità molto più alta di quella di ogni altro cambiamento del clima della Storia del pianeta. Con effetti osservabili in ogni luogo della Terra e, soprattutto, irreversibili.
La causa principale è l’aumento in atmosfera dei gas serra a partire dalla rivoluzione industriale. In pratica, l’aumento dei livelli di anidride carbonica – ma anche di metano, ozono e ossido di azoto – ha fatto crescere il calore trattenuto in atmosfera, e di conseguenza, le temperature medie. Entro il 2100 si prevede un aumento della temperatura media della Terra di almeno un grado e mezzo, che secondo molte previsioni supererà i 2°. Per numerosi scienziati mantenere il riscaldamento entro i 2 gradi, obiettivo fissato alla Conferenza sul clima di Parigi nel 2015, non sarà possibile.
Fusione dei ghiacci a Spitsbergen, in Norvegia
Quello che a prima vista sembra solo una questione di composizione chimica dell’atmosfera, insomma, condiziona la vita di tutto il pianeta, in maniera profonda. Non è uguale ovunque. Tra le aree più vulnerabili ci sono, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale, l’Artico, per l’impatto delle temperature più alte sugli ecosistemi, e le isole del Pacifico, esposte all’innalzamento del livello del mare e all’incremento di eventi meteo estremi. E poi l’Africa, in particolare la regione sub-sahariana, dove i forti impatti della siccità si sommano alla scarsa capacità di adattamento a causa della povertà estrema, e le aree intorno ai delta dei grandi fiumi asiatici, molto popolate ed esposte ad alluvioni, innalzamento del livello del mare ed eventi meteo estremi. Ecco le foto-simbolo degli stravolgimenti irreversibili del mondo.

Il Polo Nord senza ghiaccio? Presto, forse
Il polso della situazione ce lo danno in maniera lampante i Poli, dove gli ecosistemi stanno risentendo in maniera pesante del clima in trasformazione. L’Artico si sta scaldando il doppio rispetto al resto del pianeta, tanto che si prevede di arrivare prima della metà del secolo a non avere quasi più ghiaccio a settembre.
Durante la stagione estiva una parte della banchisa artica si scioglie, per poi riformarsi a partire dall’autunno, ma il fenomeno negli ultimi sta toccando livelli mai visti prima. Il record è stato raggiunto a settembre 2012, quando si sono registrati oltre 3 milioni di km quadrati (più o meno il doppio dell’Alaska) in meno rispetto alla media minima del periodo 1979-2000. Una banchisa più ridotta ha reso più semplice lo sfruttamento delle risorse – dalla pesca all’estrazione di idrocarburi – e ha aperto una nuova rotta commerciale tra la Cina all’Europa attraverso l’Oceano Artico, fino a pochi anni fa percorribile solo con rompighiaccio.

Il Polo Sud più caldo di 3 gradi in 50 anni
Non va meglio al Polo Sud. Il continente di ghiaccio negli ultimi 50 anni si è riscaldato di circa 3 gradi. Ad oggi l’87% dei ghiacciai antartici si è ritirato e nove piattaforme di ghiaccio hanno subito un collasso. Il più “spettacolare” è quello della piattaforma Larsen B: le immagini del suo parziale disgregamento, nel 2002, hanno fatto il giro del mondo.

 
A rischio i ghiacciai, anche quelli italiani
Non stanno bene neanche i ghiacciai montani: quelli sotto i 3mila metri si sono ridotti fino al 75 per cento. L’Ipcc prevede che entro la fine del secolo il loro volume globale potrebbe scendere addirittura dell’85 per cento.
Tra le montagne più colpite dai cambiamenti climatici ci sono le Alpi: qui negli ultimi 120 anni le temperature sono aumentate di circa 2 gradi, quasi il doppio della media globale, e si prevede un aumento di altri due gradi nei prossimi 40 anni.
Rispetto alla fine degli anni Cinquanta, spiegano i ricercatori autori del Catasto dei ghiacciai italiani, guidati dal glaciologo dell’università di Milano Claudio Smiraglia, “la superficie glaciale ha registrato una perdita del 30 per cento (157 chilometri quadrati), confrontabile all’area del Lago di Como, passando da 527 chilometri quadrati agli attuali 370 kmq (circa 3 chilometri quadrati persi all’anno)”.

L’isola che c’è, ma non ci sarà
Mentre sulle vette si riducono le riserve idriche, l’acqua in eccesso va a creare non pochi problemi alle località costiere. A risentirne di più saranno i piccoli arcipelaghi del Pacifico, dove il punto più alto si trova a pochi metri sul livello del mare. Le isole Marshall, le isole Salomone, Tuvalu, Kiribati. In quest’ultimo arcipelago di una trentina di atolli e 100mila abitanti, dal 1992 si registra un aumento del livello del mare di 7 millimetri all’anno.
Stessa cosa anche alle Salomone, dove il mare ha inghiottito cinque isole, per fortuna non abitate, mentre altre sei sono fortemente compromesse dall’erosione. Tra queste c’è Nuatambu, dove vivono 25 famiglie: negli ultimi anni ha perso metà della sua superficie abitabile.

Le barriere coralline in pericolo di vita
Il mare non solo si innalza, ma diventa anche più acido, a causa delle particelle di anidride carbonica in eccesso in atmosfera che si legano con le acque. Ne fa le spese la Grande barriera corallina, patrimonio dell’umanità Unesco: a causa della diminuzione del “ph” degli oceani, il 93 per cento dei coralli è colpito dallo sbiancamento ed esposto a un alto rischio di morte, tra il 55 e il 90 per cento. “Uno studio recente ha messo in fila i tre eventi più intensi di sbiancamento dei coralli avvenuti nella Grande Barriera Corallina australiana negli ultimi vent’anni, decretando come il 2016, a causa di correnti particolarmente calde che hanno lambito la zona del reef, sia stato un vero annus horribilis: solo un misero 9 per cento dell’intera popolazione studiata ha superato la crisi senza conseguenze”, scrive l’oceanografo del Cnr Sandro Carniel nel suo libro Oceani: il futuro scritto nell’acqua (Hoepli).

Tra uragani e bombe d’acqua
Il clima, in generale, sta diventando più estremo. Con il riscaldamento globale si genera infatti un aumento del calore, e quindi dell’energia, all’interno del sistema climatico, con il risultato che i fenomeni meteorologici aumentano e diventano più intesi. Ondate di calore, uragani e trombe d’aria, bombe d’acqua.
Solo la cronaca italiana degli ultimi anni è punteggiata di eventi catastrofici: dalle alluvioni in Liguria alla Sardegna, dal Veneto a quella recente sulla costa della Toscana.







La sete dell’Africa

Di pari passo, crescono le ondate di siccità. Nelle aree più aride riscaldamento globale vuol dire più fame e più sete. In Africa meridionale per gli agricoltori gli ultimi anni sono stati durissimi. Le scarse precipitazioni della stagione 2014-2015 hanno fatto crollare i raccolti di oltre il 20 per cento e la tendenza si è aggravata nel 2016, quando è stata registrata la stagione delle piogge a più avara di precipitazioni negli ultimi 35 anni.
In Zambia, per esempio, spiegano dall’Ifad, il Fondo per lo sviluppo rurale delle Nazioni Unite, a causa dei cambiamenti climatici, negli ultimi 20 anni è aumentata la percentuale delle persone malnutrite, arrivando al 48 per cento. Una riduzione della disponibilità d’acqua nelle regioni dove già questa scarseggia potrebbe portare a un raddoppio delle persone esposte a scarsità d’acqua nei prossimi 30 anni e a un calo della produttività agricola, mentre aumenterebbero le aree a rischio malaria.

Ambiente più secco, incendi più probabili
Un ambiente secco significa anche un maggiore rischio di incendi. Non è un caso che in Italia la peggiore stagione degli incendi almeno degli ultimi dieci anni si sia verificata dopo la seconda primavera più calda dall’Ottocento, che in campagna ha causato perdite per 2 miliardi di euro. “Sebbene la maggior parte degli incendi sia innescata da attività umane, dolose e non, abbiamo constatato che le condizioni climatiche influenzano la propagazione e quindi l’estensione dell’incendio”, Antonello Provenzale, direttore dell’Igg-Cnr, coautore di una ricerca sul tema insieme alle università di Barcellona, Lisbona e della California a Irvine.
Pensiamo al fuoco che nel 2015 e 2016, in pochi mesi, ha divorato milioni di ettari di foreste in Russia e in Canada. Ma anche in Italia, dove tutto si intreccia con il fenomeno dei piromani, anche quelli prezzolati dalla criminalità organizzata.




Dal leopardo delle nevi allo stambecco, gli animali in pericolo
Gli effetti dei cambiamenti climatici saranno pesanti anche per gli animali. Uno dei simboli della biodiversità in pericolo è il leopardo delle nevi: ne restano solo 4mila esemplari tra Russia, Cina e Asia centrale, già fortemente minacciati dal riscaldamento globale che nei prossimi 50 anni potrebbe distruggere due terzi dei suoi habitat. Ma gli effetti si avvertono anche in Europa: sulle montagne il tasso di sopravvivenza di stambecco, pernice bianca e stella alpina è sceso dal 50 per cento degli anni Ottanta al 25 di oggi, complice l’innalzamento della quota neve.
E non va meglio nei mari, le acque si “tropicalizzano”, favorendo l’arrivo di nuovi predatori. Scrive il ricercatore l’oceanografo del Cnr Sandro Carniel nel suo libro Oceani: il futuro scritto nell’acqua (Hoepli): “Si stima che addirittura una specie su quattro di quelle attualmente presenti fosse estranea al Mediterraneo non più tardi di 150 anni fa. In altri casi, a migrare verso acque più fredde sono invece specie che non riescono ad adattarsi al clima che cambia troppo velocemente. Così accade a sardine, acciughe e polpi, una volta comuni nelle acque portoghesi e che ora, complice un aumento medio delle temperature di quasi un grado centigrado negli ultimi trent’anni, non sono più una rarità nei mari del Nord o nel Baltico”.

La formula magica delle tre R per salvare il mondo
Che fare? Una ventina tra i maggiori studiosi italiani di cambiamenti climatici, raccolti nel gruppo Energia per l’Italia e capeggiati da Vincenzo Balzani, professore emerito all’università di Bologna, in un recente appello al governo italiano ha indicato la strada: “Quali sono i principali obiettivi strategici che dovrebbero sostituire il dogma strade-cemento-idrocarburi? Risparmio-riuso-rinnovabili”, affiancando all’energia pulita anche l’efficienza e la riduzione degli sprechi. “Attualmente un cittadino europeo usa in media 6mila watt di potenza, mentre negli anni Sessanta la potenza pro capite usata in Europa era di 2mila watt per persona, corrispondenti ad una quantità di energia sufficiente per soddisfare tutte le necessità”.

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