domenica 31 dicembre 2017

Libri. Ambiente: vecchie e nuove alleanze.

Da "La nuova alleanza" di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers (Einaudi, 1981) a "La ragione ecologica" di Stefano Righetti (Mucchi, 2017), come concepire il rapporto tra uomo e ambiente? Come fermare lo scatenamento autodistruttivo dell’uomo verso la natura? Riflessioni per una “Nuovissima Alleanza” all’insegna della responsabilità a tutela dell’ecosistema complessivo.



micromega Pierfranco Pellizzetti

«Noi vogliamo essere necessari, inevitabili,
ordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi
tutte le filosofie, perfino una parte della
scienza, sono testimoni dell’instancabile,
eroico sforzo dell’umanità, che nega
disperatamente la propria contingenza».[1]
Jacques Monod

«È già stata una follia in Europa copiare gli Stati Uniti,
e lo è ancora di più in Cina. Ai cinesi ho sempre detto
negli anni Novanta e Duemila che andavano a visitare le
città sbagliate Se vogliono vedere come si possa essere
ricchi senza distruggere l’ambiente devono andare ad
Amsterdam, non a Los Angeles»[2].
Giovanni Arrighi

Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981
Stefano Righetti, La ragione ecologica, Mucchi, Modena 2017


Oltre l’animismo


Secondo lo scienziato Prigogine, premio Nobel 1977 per la chimica, e l’epistemologa Stengers, «il 28 aprile 1686 fu una delle più grandi date nella storia dell’umanità. Quel giorno Newton presentò i suoi Principia alla Royal Society». Di certo un momento fondativo della scienza occidentale ma anche un cambiamento nella visione della natura: da un lato la ricerca della verità eterna dietro la molteplicità mutevole dei fenomeni e – dall’altro – lo svilimento di un mondo ridotto a un semplice automa. Altro che Gaia, la natura vivente…

Scenario che induce senso di grande libertà e – al tempo stesso – estrema desolazione, già descritto da un altro Premio Nobel (1965, per la medicina) – Jacques Monod – in termini perentori: «L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre»[3].

Quella condizione oscillante tra l’euforia di scoprirsi signori e padroni di se stessi e lo smarrimento della solitudine siderale. “L’ansietà dell’uomo moderno”.

Del resto, la stessa motivazione che animava gli antichi atomisti, da Democrito a Lucrezio: redimere l’umanità dalla paura; dell’ignoto, della collera divina. Che, prima ancora, spinse il pensiero primitivo a scorgere nelle forme e negli avvenimenti naturali l’azione di forze benevole od ostili, mai indifferenti: l’atteggiamento animistico che «consiste nel proiettare nella natura inanimata la coscienza che l’uomo possiede del funzionamento intensamente teleonomico del proprio sistema nervoso centrale»[4]. Appunto, Monod la chiama “Antica Alleanza”. Dissolta la quale, i grandi fondatori della scienza occidentale moderna perseguirono la ricerca di leggi universali ed eterne. La struttura teorica unificante un mondo autosufficiente, in contrasto con la visione cristiana della Provvidenza.

Semmai, “il dio-architetto”, “l’orologiaio del mondo”.

Progetto che - dopo Niels Bohr e Albert Einstein - Prigogine e Stengers, in dialogo ininterrotto con Monod, giudicano “andato in pezzi”: «ovunque guardiamo, troviamo evoluzioni, diversificazioni, instabilità. Curiosamente, ciò è vero a tutti i livelli fondamentali: nel campo delle particelle elementari, in biologia, in astrofisica con l’espansione dell’Universo e l’evoluzione delle stelle che culmina nella formazione dei buchi neri»[5].

L’ennesimo, dirompente, passo avanti nel disincanto, soprattutto nel modo di concepire la biosfera, accelerato nella seconda metà del Novecento dalla critica del nuovo miraggio antropocentrico, innestato sulla teoria dell’evoluzione; con i suoi determinismi, finalismi e il mito sempre incombente del “Grande Progetto”, come regia nascosta sovrastante le umane vicende.

Sicché, nell’ultimo quarto di Novecento, l’antica alleanza animista appariva morta non meno del mondo finalizzato, statico e armonioso, distrutto dalla rivoluzione copernicana; come pure il mondo-orologio sul quale ci sarebbe stata assegnata la giurisdizione: la natura non è la nostra ancella, il campo sottoposto alla nostra incontrastata volontà. Queste le conclusioni di Prigogine e Stengers: «Jacques Monod aveva ragione: è ormai tempo che ci assumiamo i rischi dell’avventura umana. Ma se oggi possiamo farlo è perché, ormai, solo così possiamo partecipare al divenire culturale e naturale, perché questa è la lezione che ci impartisce la natura, se vogliamo davvero ascoltala. Il sapere scientifico sbarazzato dalle fantasticherie di una rivelazione ispirata, soprannaturale, può oggi scoprirsi essere ascolto poetico della natura e contemporaneamente processo naturale nella natura, processo aperto di produzione e di invenzione, in un mondo aperto, produttivo e inventivo. È ormai tempo per nuove alleanze, alleanze da sempre annodate, per tanto tempo misconosciute, tra la storia degli uomini, delle loro società, dei loro saperi e l’avventura esploratrice della natura»[6].

Attualmente potrebbero farci pervenire a ben altre conclusioni – assai più pessimistiche - le ricorrenti insorgenze fondamentalistiche e oscurantistiche che caratterizzano il paesaggio umano all’inizio del Terzo Millennio.

Sicché, di fronte al revanscismo degli incantamenti in atto, può – comunque - offrire un salutare conforto intellettuale il recupero dell’idea di “Nuova Alleanza” annunciata dai nostri autori. Che prende certamente le mosse dalla consapevolezza di come la visione della natura sia stata via via sottoposta a cambiamenti radicali. Al tempo stesso evidenzia che la distinzione tra uomo e natura non deve essere pensata come assoluta: «la vita non sarebbe possibile senza un’interazione attiva tra il vivente e la natura che lo circonda»[7].

L’Alleanza calpestata

Nel frattempo l’umanità sta massacrando quanto mai prima il proprio habitat vitale. Ossia produce “natura degradata” su una scala dimensionale senza precedenti; portando a livello parossistico le devastazioni consumate nel passato anche pre/proto-storico in ambiti circoscritti. Dalla Meso-America precolombiana, con l’estinzione di intere civiltà amerindie, nei territori desertificati da scriteriate pratiche agricole e/o religiose, all’isola di Pasqua, ai cieli neri di fuliggine sopra i “borghi putridi” della prima industrializzazione. Sempre effetti prodotti dal superamento incosciente dei limiti. Per arrivare a “la bomba e il numero”, come si disse nel secondo Novecento: l’ottusa aggressività suicida (contro se stessi e/o la biosfera) e la minaccia demografica coniugata con la follia consumistica, oltrepassano in misura irrecuperabile la capacità di resilienza dello stesso pianeta.

Minacce mortali per quanto ci circonda, oggi riproposte nella dimensione planetaria, che praticano ininterrotte azioni dissipative dell’uomo verso/contro la natura.

«La realtà oggettiva su cui si muovono le teorie realistiche contemporanee si fonda su tre grandi finzioni (l’invenzione del denaro, la mercificazione della terra, resa fungibile nonostante il suo essere ontologicamente unica, e l’astrazione del tempo-lavoro) che sono le condizioni di possibilità di comportamenti anti-ecologici»[8].

Una riflessione del manifesto “benicomunista” 2011, in cui risuonano ancora le aspre parole del sociologo Ulrich Beck: «il primo principio alla base delle diseguaglianze sociali legate al rischio climatico recita: l’inquinamento segue la povertà»[9].

Non era certo questa la cornice concettuale agli inizi degli anni Settanta; negli ultimi bagliori dell’età welfariana, quando ancora non si avvertiva l’approssimarsi dello tsunami sociale-economico-politico-culturale che avrebbe spazzato via il modo, sostanzialmente buonistico e comunque rispettoso, di concepire il rapporto tra uomo e ambiente. Una cornice delineata da grandi scienziati, tra l’altro con marcate attitudini umanistiche quali Monod e Prigogine, e l’approccio filosofico dominante era quello epistemologico. Il tempo in cui, almeno a livello mediatico, si ergeva la figura di Karl R. Popper e, a parte l’anarchico birichino Paul Feyerabend («Popper non è un filosofo, è un maestro di scuola»[10]), nessuno si permetteva di contestarne la (pur vagamente monomaniacale) lezione fallibilistica. La tesi di un’oggettività intersoggettiva raggiunta attraverso la dinamica delle congetture e delle confutazioni, grazie alle quali un mondo afasico può essere interrogato dalla scienza. E questo nonostante avanzasse un approccio critico, in qualche misura demistificante, nei confronti della pretesa oggettività del discorso scientifico. Già anticipato dallo storico della scienza Thomas Kuhn, secondo cui esiste una dialettica tra “scienza normale” e “rotture rivoluzionarie” del vecchio paradigma dominante[11] a riprova dell’influenza che sulla ricerca esercitano aspetti extra-scientifici. Dal sociologico al politico. Poi esplicitata da Pierre Bourdieu, con la consueta eterodossia critica: «gli oggetti scientifici non sono soltanto fabbricati tecnicamente nei laboratori ma sono costruiti in modo inseparabilmente simbolico e politico attraverso tecniche letterarie di persuasione quali si possono trovare negli articoli scientifici, attraverso strattagemmi politici grazie ai quali gli scienziati mirano a formare alleanze o mobilitare risorse»[12].

Ma allora nessuno tra questi filosofi della scienza si azzardò a giustificare minacce alla biosfera. E solo successivamente verrà messa in discussione la stessa fondatezza del messaggio di allarme che era cominciato a circolare da quando il Club di Roma, il gruppo internazionale di personalità del mondo intellettuale presieduto da Aurelio Peccei, circuitò nel dibattito pubblico crescenti preoccupazioni per i rischi insiti in uno sviluppo senza limiti. «Cosa succede effettivamente in questo mondo piccolo, sempre più dominato da interdipendenze che ne fanno un sistema globale integrato dove l’uomo, la società, la tecnologia e la Natura si condizionano reciprocamente mediante rapporti sempre più vincolanti?»[13].

Presto questa domanda del 1972 sarà cassata come priva di interesse. Perché siamo in prossimità della controrivoluzione conservatrice e del suo furore mercatistico, determinato a trasformare tutto in merce e possesso. Appunto, a partire dalla Natura. In particolare, la folle utopia di lottare contro i cambiamenti climatici facendo leva sul mercato.

Dunque, l’ascesa del mercato come supremo regolatore delle scelte, individuali e collettive. Ma questa è solo la cornice ideologico-comunicativa di un’aggressione all’ambiente che trae le proprie motivazioni profonde da precisi interessi di classe. Per dirla con David Harvey, «è possibile interpretare la neo-liberalizzazione come un progetto utopico finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale. Oppure come un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche»[14]. Quindi, il saccheggio della natura come nuova accumulazione originaria di un capitalismo speculativo e accaparratore, al termine della stagione industrialista.

L’orgia di privatizzazioni, a partire dall’acqua e dall’aria, avallate da un ceto politico colluso con gruppi di interesse grandissimi quanto irresponsabili. È stato calcolato che solo nel fatidico 1972 le grandi imprese americane sborsarono all’incirca 900 milioni di dollari per finanziare operazioni “culturali” a sostegno dell’abbattimento di ogni vincolo ambientale. Quelle operazioni teorizzate nei deliri di fanatici ideologizzati - come il premio Nobel 1991 per l’economia Ronald Coase – pronti a sostenere che la mancata tutela dell’environnement, ad esempio nel caso di un’industria che inquina, deriverebbe da un ritardo nella ripartizione dei diritti di proprietà[15], non da più attenti controlli e regolazioni. Da qui il rilevato declino dei modelli costituzionali fondati sulla responsabilità sociale delle imprese. Le scelte che hanno portato l’ambiente a un collasso che risulta sempre di più senza inversione di tendenza. E intanto Madre Natura iniziava a morire. Effetto folle di una stagione in cui la corsa sfrenata all’arricchimento è diventata vero e proprio suicidio dell’umanità, insieme all’intera ecosfera. Fermo restando – come ripete il noto giornalista economico Paul Mason - che «i veri irrazionali non sono i negazionisti dei cambiamenti climatici, ma i politici e gli economisti che credono che gli attuali meccanismi di mercato siano in grado di fermare il riscaldamento globale, che sia il mercato a dover fissare i limiti degli interventi in difesa del clima e che il mercato possa essere strutturato in modo tale da produrre il più grande progetto di reingegnerizzazione che l’umanità abbia mai tentato»[16].

Ossia la manovalanza e gli uomini di mano al servizio di quell’1% per cento di privilegiate determinato a vendere il vendibile, persone e ambiente compresi.

La Nuovissima Alleanza


Si direbbe lo scatenamento autodistruttivo di un ciclo economico in fase terminale. Una sorta di “après moi le déluge!” da Armageddon.

Eppure, secondo il filosofo bolognese Stefano Righetti, esisterebbe un legame permanente tra l’attuale emergenza ecologica e la tradizione del pensiero occidentale; come una tabe che accompagna la nostra cultura a partire dalla “fondazione antropologica della Modernità” come “protagonismo titanico”: un’idea di soggettività che si pensa e costruisce indipendentemente dal mondo fisico, esterna alla natura. Potenza autopoietica che procede incessantemente verso un dominio infinito. Sicché, «dal punto di vista filosofico, il tema dell’ecologia pone al pensiero occidentale la necessità di ripensare i fondamenti del proprio sviluppo, in maniera radicale e (perfino) inesorabile»[17].

Ecco dunque l’approccio al tema dell’assoggettamento della natura prendendo le mosse dal “pensare del pensiero” (suggestiva espressione heideggeriana, ammesso che significhi qualcosa); scegliendo di muoversi sull’asse filosofico che va da Hegel a Marcuse, lungo il quale il delirio d’onnipotenza idealistico arriva a giustificare una sorta di guerra di conquista della finitezza del mondo da parte della storicità dello spirito, attraverso il lavoro umano che trasforma l’ambiente in merce. Quanto costituirebbe – secondo l’esoterismo profetico hegeliano – il “Progetto Occidentale”.

Al di là degli altisonanti paroloni, un viatico da parte di una tradizione di pensiero ambiguo (secondo qualcuno, «l’anello mancante tra Platone e la forma moderna del totalitarismo»[18]) all’assiomatica dell’interesse individuale, per la costante espansione del capitale (come riproduzione attraverso l’investimento in età industrialista, accumulazione mediante esproprio nell’ormai declinante età finanziaria).

Mentre ormai risulta in tutta evidenza la follia della possessività nel suo schierarsi contro la natura; al tempo stesso, assicurandosi una sorta di impunità ambientale. Magari scatenando come diversivo vere e proprie guerre tra poveri (vedi il caso dell’Ilva di Taranto, in cui si aizzarono inoccupati contro inquinati, paravento di vere e proprie criminalità economiche padronali). Come scrive Righetti: «si può essere condannati a pene severissime per un omicidio ma è molto difficile esserlo per la distruzione dell’ambiente, da cui la stessa vita umana dipende»[19].

La strada indicata dal nostro autore è quella di un impegno culturale perché «la definizione della natura come alterità, contro cui l’uomo deve lottare, ha strutturato un atteggiamento che è insieme culturale ed economico, e che non può essere modificato senza modificare al contempo il presupposto teorico che sostiene il soggetto occidentale»[20]. A prescindere dal fatto che anche il soggetto orientale, excursus filosofico a parte, si sta rivelando altrettanto massacratore dell’ambiente (e la Cina è in testa nell’attuale classifica degli inquinatori), resta il dubbio di come Righetti vorrebbe realizzare la rettifica di tale presupposto teorico per ottenere pratiche responsabili verso le condizioni stesse della vita. Ripetere la ricetta di André Gorz, che pretendeva di utilizzare il movimento ecologista per vivificare il socialismo in declino? Incrementare un’intensa azione testimoniale (disarmata)?

Intanto, mentre la filosofia riflette su se stessa, «un sociopatico narcisista (copyright Jonathan Franzen) diventato presidente degli Stati Uniti ha definito il problema del riscaldamento globale una bufala inventata dai cinesi per minare la competitività dell’industria americana»[21]. Una sorta di remake firmato da Trump e la sua accolita di negazionisti lobbisti, mobilitati contro l’Accordo di Parigi, dell’affossamento del Protocollo di Kyoto da parte della junta petrolifera di Bush e Cheney. Ma – a fronte della protervia cieca del potere - non ci sono segnali che la pubblica opinione mondiale sia realmente consapevole del problema; proprio partendo dalla miriade di micro comportamenti dissipativi che quotidianamente vengono posti in essere.

E su questo l’alta cultura può davvero ben poco.

L’opinione di chi scrive è che ogni istanza culturale si afferma attraverso le lotte per la sua attuazione, diventando prima convincimento diffuso e poi movimento. Dunque, presa di coscienza, organizzazione e azione pubblica. A cui i contributi intellettuali, (buona) filosofia compresa, sono chiamati ad alimentare gli arsenali argomentativi.

La politica per una Nuovissima Alleanza all’insegna della responsabilità che propugni il diritto alla tutela per conto dell’ecosistema complessivo.

La metafora coalizionale dell’alleanza, che nella versione “antica” di Monod presupponeva l’incontro di due parti attive, impegnate nella stipula di un accordo, in quanto “nuova” e “nuovissima” diventa un processo di militanza a favore non solo della nostra specie ma anche dell’intera sfera della vita con cui siamo interconnessi.

Nella logica dell’agire politico nel Terzo Millennio, proprio dei movimenti in lotta contro la truffaldina colonizzazione delle menti operata dal Pensiero Unico.

«La politica è il processo di allocazione del potere nelle istituzioni. Le relazioni di potere sono in larga misura basate sulla capacità di plasmare la mente umana attraverso la costruzioni di immagini»[22]. Per la rinnovata alleanza dell’uomo con se stesso, all’insegna della ragione ecologica. Perché ecologia deriva da “oikos”, non solo “casa” ma anche “posto dove vivere”[23].

In questo senso, qualche segnale positivo sta giungendo proprio dai confini estremi dell’Occidente. Ne è buon esempio la solenne dichiarazione del “diritto umano all’acqua bene comune” contenuta nella nuovissima Costituzione della Bolivia, promulgata nel dicembre 2007 e convalidata con referendum popolare nel 2009.

Purtroppo, analoga iniziativa referendaria in Italia ha incontrato un esito diverso: l’approvazione popolare del quesito, relativo all’utilizzo democratico ed ecologico dell’acqua, è stata rapidamente vanificata dalle pratiche impudenti di un ceto politico subalterno agli interessi accaparrativi. D’altro canto il popolo boliviano scrisse la sua nuova carta costituzionale dopo una lunga lotta, fatta di scioperi e manifestazioni, contro il proprio presidente Sánchez de Lozada, detto el Gringo, legato a filo doppio alla multinazionale statunitense Bechel, leader del grande oligopolio globale dell’oro blu. Aux armes, citoyens!

NOTE

[1] J. Monod, Il caso e la necessità. Mondadori, Milano 1986 pag. 52

[2] G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Manifestolibri, Roma pag. 52

[3] J. Monod, Il caso, cit. pag. 172

[4] Ivi pag. 40

[5] I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza, cit. pag. 4

[6] I. Prigogine e I. Stengers, La nuova alleanza, cit. pag. 288

[7] Ivi pag. 6

[8] U. Mattei, Beni comuni, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 51

[9] U. Beck, “La speranza dello Stato cosmopolita”, Reset 110, dicembre 2008

[10] P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma/Bari 1989 pag. 4

[11] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978 pag. 119

[12] P. Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, Milano 2003 pag. 34

[13] D. Meadows, J. Randers e W. Beherens, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972 pag.14

[14] D. Harvey, Breve storia del Neoliberismo, il Saggiatore, Milano 200 pag. 29

[15] E. Carnevali e P. Pellizzetti, Liberista sarà lei! Codice, Torino 2010 pag.73

[16] P. Mason, Postcapitalismo, il Saggiatore, Milano 2016 pag. 290

[17] S. Righetti, La ragione ecologica, cit. pag. 21

[18] K. R. Popper, La Società Aperta e i suoi nemici (Vol. II), Armando, Roma 1974 pag. 46

[19] Ivi pag. 58

[20] Ivi pag. 8

[21] S. Caserini, “Verso il suicidio climatico?”, MicroMega Almanacco della scienza 6/2017

[22] M. Castells, Comunicazione e Potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009 pag.241

[23] E. P. Odum, Principi di ecologia, Piccin, Padova 1973 pag.3

(29 dicembre 2017)

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