Di Moneta Fiscale, nelle sue possibili varianti e applicazioni, parlano ormai con intensità crescente tutte le principali forze politiche di opposizione, com’è noto da tempo ai lettori di Micromega (vedi la parte iniziale di questo articolo, apparso nel giugno scorso). Sul tema, il M5S ha tra l’altro presentato un emendamento all’ultima legge di bilancio. Naturalmente l’attuale maggioranza parlamentare a traino PD non l’ha approvato né era pensabile che lo facesse, e data la dimensione limitata della proposta, l’emendamento aveva più che altro una funzione di test. Significativo comunque è che sia stato dichiarato ammissibile dalla Ragioneria Generale dello Stato.
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In Italia si sono quindi definiti due blocchi politici: gli allineati alle politiche di austerità “prescritte” dalla UE – blocco imperniato sul PD – e le opposizioni, che in forme varie stanno prendendo in esame l’introduzione di uno strumento fiscale finalizzato, in primo luogo, al rilancio della domanda interna. Nel frattempo, si parla anche di fantomatiche riforme dell’Eurozona, da cui in realtà non c’è da aspettarsi nulla di positivo (tenuto conto, tra le altre cose, che in Germania a crescere di peso politico sono solo i liberali “austeristi” e la destra nazionalista).
Di pari passo, aumenta anche l’attenzione dell’establishment, e diremmo anche il suo nervosismo, di fronte alla crescita di interesse verso la Moneta Fiscale. Articoli critici sono stati pubblicati ad esempio da Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera e da Roberto Perotti su Repubblica. In entrambi i casi non abbiamo avuto difficoltà a confutare le loro argomentazioni: vedi qui nel caso di De Bortoli e qui in quello di Perotti. Ma non ci è stato consentito di farlo sui medesimi organi d’informazione che hanno pubblicato le critiche: la volontà di sviluppare un corretto e produttivo confronto di opinioni ha tutta l’aria di mancare, ed è molto grave.
Un ulteriore, ancora più recente esempio è il pezzo pubblicato sul Sole24Ore da Lorenzo Codogno, Charles Goodhart e Dimitrios Tsmomocos, che riprendono un commento della Banca d’Italia, già da noi confutato su Micromega. Secondo Codogno & C. “se uno Stato decidesse di eseguire i propri pagamenti in valuta diversa dalla moneta legale si prefigurerebbe una violazione dei Trattati europei”. Il che – citando la Banca d’Italia - avrebbe “negative ripercussioni di carattere reputazionale presso i potenziali sottoscrittori di titoli del debito pubblico”.
Gli autori richiamano poi altri effetti: diminuzione degli introiti subita dalle imprese pagate in Moneta Fiscale (di minor valore, si sostiene, rispetto all’euro), obbligo per lo Stato di ripagare il debito pubblico in euro a fronte di introiti in Moneta Fiscale, rischio d’insolvenza per le banche se si ridenominasse il debito pubblico o il debito dei residenti nei loro confronti, ecc.
In effetti la Banca d’Italia, nonché Codogno & C., hanno elaborato uno “straw man argument”: una fallacia logica che “controbatte” un’argomentazione rappresentandola in modo errato o distorto. Si spara allo “straw man”, allo spaventapasseri, come fosse il nemico reale…
Banca d’Italia e Codogno & C. non citano documenti di riferimento. Gli autori del presente articolo si sentono però chiamati in causa, essendo da anni fortemente attivi nell’elaborare il concetto di Moneta Fiscale (peraltro insieme a un folto e crescente gruppo di accademici, economisti e professionisti del settore finanziario).
Per carità, sarà stato un equivoco in buona fede. Leggendo i nostri documenti (e nel dubbio chiedendo) è però chiarissimo che il progetto Moneta Fiscale non prevede l’esecuzione di alcun pagamento da parte dello Stato, a fronte di impegni esistenti, in monete diverse dall’euro, né alcuna ridenominazione di posizioni bancarie, quote di debito pubblico, o altro. Al contrario, consente di evitare tutto ciò ottenendo nello stesso tempo un forte rilancio di domanda, PIL, occupazione e competitività delle aziende.
La via di introduzione più rapida della Moneta Fiscale è l’emissione di Certificati di Crediti Fiscale (CCF), titoli che danno diritto – a partire da due anni dopo la loro emissione – a sconti di imposte, tasse, e pagamenti verso la Pubblica Amministrazione in genere.
La proposta è emettere CCF assegnandoli senza corrispettivo ai lavoratori (per integrare i loro redditi) e alle aziende in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti (ottenendo così una riduzione del costo effettivo e un immediato miglioramento di competitività). Quote di CCF possono inoltre essere utilizzate per effettuare azioni espansive di spesa sociale e investimenti pubblici. Nelle assegnazioni vanno privilegiate le fasce di popolazione disagiate, per equità e per rilanciare più rapidamente la domanda interna.
Contrariamente a quanto afferma la Banca d’Italia (che qui prende una pura e semplice topica) i CCF non concorrono a formare né deficit né debito pubblico. I principi contabili internazionali, recepiti da Eurostat, sono chiarissimi: non c’è debito se non c’è impegno a effettuare pagamenti. Concedere diritti a sconti futuri non fa insorgere debiti: non sono debiti i buoni sconto emessi da un supermercato, non è debito pubblico il risparmio d’imposta che le aziende conseguiranno ammortizzando i loro cespiti, ecc.
Soprattutto, sui CCF l’emittente non può essere forzato al default. Lo Stato potrebbe non avere gli euro per rimborsare BTP; mai essere costretto a disconoscere l’impegno di accettare CCF a riduzione di tasse e imposte.
Incorporando un diritto futuro legalmente tutelato, i CCF hanno valore fin dal momento dell’emissione. Potranno essere ceduti contro euro negoziandoli sul mercato finanziario (come si fa con BOT e BTP), e anche essere accettati negli scambi commerciali: per un grande magazzino o per una catena di distribuzione di carburante, che hanno flussi costanti di versamenti per IVA, contributi, accise ecc., uno sconto fiscale rappresenta un valore ben tangibile.
Condizione perché un CCF abbia un valore prossimo a quello dell’euro è che non ne giungano annualmente a maturazione quantitativi elevati rispetto agli incassi lordi della Pubblica Amministrazione. Diversamente i tempi di utilizzo si allungherebbero. Ma il progetto prevede che i quantitativi in oggetto raggiungano (in cinque anni) circa 100 miliardi annui a fronte di incassi pubblici lordi di 800: il rapporto di copertura è altissimo.
Ci sono anche ampi spazi per azioni correttive non procicliche (ad esempio un’imposta straordinaria da pagare in euro, compensata da erogazioni di CCF al contribuente) in caso di sorprese congiunturali negative. Mentre tagli di spesa e/o aumenti di tasse “secchi”, senza compensazione, inducono disastrose cadute di domanda interna e vanificano gli obiettivi stessi di riequilibrio dei conti pubblici. Lo si è sventuratamente constatato nel 2011-2: “il ministro delle finanze ha inseguito la sua stessa coda”, per citare John Maynard Keynes.
Un’espansione di PIL pari ai CCF distribuiti (senza nemmeno ipotizzare effetti moltiplicativi, ipotesi molto prudenziale per un’economia che riparte da una forte depressione) insieme a un contenuto recupero degli investimenti privati (metà della caduta rispetto al picco storico del 2007) è sufficiente a produrre notevolissimi risultati. Il debito pubblico (quello vero, da rimborsare in euro) si stabilizza in valore, e scende rapidamente in rapporto al PIL. L’economia cresce a ritmi superiori al 3% annuo per 3-4 anni, riassorbendo l’output gap prodotto dalla crisi. E il recupero di competitività prodotto dal minor cuneo fiscale effettivo evita di peggiorare i saldi commerciali esteri.
Conseguire questi risultati è imprescindibile per il nostro Paese. Nel 2016 (dati Istat) le persone in povertà assoluta hanno raggiunto 4,74 milioni (contro 1,79 nel 2007). Il 30% della popolazione è a rischio di povertà / esclusione sociale. Una situazione spaventosa, che una “ripresa” dell’1,5% è del tutto insufficiente a risolvere.
Questo terribile dissesto sociale nasce da un PIL reale oltre 120 miliardi inferiore al 2007. Le esportazioni sono al picco storico: al di fuori dell’Italia, dove la domanda non è artificialmente compressa, le aziende vendono più di prima. Manca però domanda interna. Non c’è, come a volta si afferma, una dicotomia tra esportatori efficienti, che “hanno vinto la sfida della globalizzazione”, e aziende rivolte al mercato italiano, che si sarebbero “sedute”: le importazioni sono cadute ancora più della domanda interna. Tutti vendono meno in Italia – aziende nazionali così come estere – perché il potere d’acquisto interno è insufficiente. Punto.
Il problema va risolto, e la Moneta Fiscale ne è la soluzione. Senza bisogno di maggiori garanzie né di trasferimenti finanziari. Senza produrre rotture, ridenominazioni, o effetti deflagranti di alcun tipo. E senza alcuna violazione dei trattati e dei regolamenti che governano l’Eurosistema.
Quanto ai critici della Moneta Fiscale, a noi una volta di più ricordano tanto, sempre in tema di spaventapasseri e di spauracchi, le parole di Keynes:
“La convinzione che esista una qualche legge di natura che impedisce alle persone di avere un’occupazione, che è “avventato” impiegarle, e che è finanziariamente “sano” mantenere un decimo della popolazione inattiva per un periodo indefinito, è pazzamente improbabile – il tipo di cosa a cui nessuno la cui testa non sia stata confusa con assurdità per anni e anni potrebbe credere. Il nostro compito principale, quindi, sarà di confermare la sensazione istintiva del lettore, che quello che appare sensato è sensato, e che quello che appare assurdo è assurdo. Ci sforzeremo di mostrargli come la conclusione che se nuove forme di impiego sono offerte, più persone saranno impiegate, è ovvia così come suona e che non contiene nessun imprevisto nascosto; che mettere persone disoccupate al lavoro per compiti utili ottiene quello che appare ottenere, cioè accrescere la ricchezza nazionale; e che la nozione secondo cui, per complesse ragioni, ci rovineremmo finanziariamente utilizzando questo mezzi per accrescere il nostro benessere, è quello che appare – uno spauracchio privo di sostanza”.
(27 dicembre 2017)
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