venerdì 22 dicembre 2017

In Italia servono equità e trasparenza sui costi ambientali.

Per indirizzare produzioni e consumi verso una green economy è indispensabile che i costi ambientali siano a carico di chi inquina, in modo che sia responsabilizzato a evitare o ridurre i suoi impatti ambientali, non tragga vantaggi economici dall'inquinamento e sia premiato se investe e si impegna per l'ambiente.
 
 

Per queste ragioni "chi inquina paga" è un principio fondamentale della tutela ambientale a livello europeo e internazionale, così come la fiscalità è lo strumento principe per riequilibrare i costi esterni ambientali, per farli emergere con trasparenza e ripartirli fra chi li genera con equità.
"Chi inquina, paga?", uno studio pubblicato questo mese dal Senato della Repubblica a cura di Andrea Molocchi, ci aiuta a capire il problema in Italia.
Il totale dei costi esterni ambientali stimati per le attività delle imprese e delle famiglie in Italia nel 2013 sarebbe stato di circa 50 miliardi: si tratta di una stima parziale, limitata alle emissioni in atmosfera, che però ha il pregio di stimolare alcune riflessioni. Secondo questa stima i costi ambientali principali sarebbero generati dall'industria (13,9 miliardi), dall'agricoltura (10,9 miliardi), dal riscaldamento domestico (9,4 miliardi) e dai trasporti delle famiglie (7 miliardi). Il confronto fra il gettito delle imposte ambientali e i costi esterni ambientali evidenzia che le famiglie pagherebbero il 70% in più dei loro costi esterni ambientali, le imprese pagherebbero il 26% in meno. In particolare l'agricoltura pagherebbe il 93% in meno e l'industria il 27% in meno dei costi esterni ambientali, mentre il comparto dei servizi pagherebbe il 57% in più.

Il settore manifatturiero presenterebbe una situazione di forte squilibrio al suo interno: alcuni settori pagherebbero di più – attraverso le imposte ambientali - dei propri costi esterni, altri (coke e raffinazione, vetro, ceramica, cemento, metallurgia e industria della carta) pagherebbero molto meno di quanto dovrebbero.
Ci sarebbero quindi ampi margini per migliorare la qualità delle imposte ambientali e riformare la fiscalità vigente -principalmente basata sulle accise sui prodotti energetici – per un maggior utilizzo di imposte specifiche sulle emissioni, come la carbon tax. In particolare, questo studio segnala tre aree di possibile intervento:
- la riallocazione dei sussidi dannosi per l'ambiente - che il Catalogo dei sussidi ambientalmente favorevoli e dei sussidi ambientalmente dannosi (Ministero dell'Ambiente,2017) stima complessivamente in 16,2 miliardi l'anno - anche nei medesimi settori, come l'agricoltura, destinandoli ad attività con ricadute ambientali positive;
- la modifica del sistema comunitario di commercio delle emissioni (Ets - Emission Trading System), evitando l'allocazione gratuita di permessi a specifici settori e l'introduzione di una carbon tax sia nei settori non Ets sia sulle importazioni;
- l'introduzione graduale di imposte su specifici inquinanti e sull'estrazione di risorse naturali scarse.
Una riforma della fiscalità ambientale sarebbe molto utile anche per finanziare un piano di interventi di sostegno alla green economy e per l'attuazione dell'Accordo di Parigi sul clima.

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