martedì 4 luglio 2017

“Insieme” per fare cosa? Intervista a Stefano Fassina

Comunque la si pensi – e noi la pensiamo decisamente male – la mini-kermesse di Piazza Santi Apostoli, dove l’ectoplasma di Pisapia ha presentato il suo “Insieme”, è un fatto politico. Di che tipo, non è difficile da capire. Contenuti pressoché zero (solo uscite individuali su questo e quello), tanto politicismo astratto (chiedere a Renzi “primarie di coalizione” mentre si va a votare con una legge elettorale che prevede liste singole, ma non coalizioni, dà l’idea della confusione mentale nella testa del “leader”), non detti più numerosi delle affermazioni (alternativi a Renzi ma pronti a convergere “per non far vincere le destre”, mentre lo stesso Renzi vuole fermissimamente fare il governo col Berlusca…).

Un bel groviglio di insensatezze che è bene chiarire parlando con chi, magari un po’ lateralmente e con idee spesso contrastanti (per esempio sull’euro e l’Unione Europea), in quel percorso ci ha messo un piede, andando in quella piazza.
L’intervista con Staefano Fassina è stata realizzata da Radio Città Aperta.
Il nostro spazio di approfondimento di oggi vede ospite Stefano Fassina, di Sinistra Italiana, che parlerà con noi della nascita di “Insieme”, questa formazione che è stata tenuta a battesimo sabato pomeriggio a Roma. Buongiorno Fassina.
Buongiorno a voi.
Sabato pomeriggio è stata tenuta a battesimo “Insieme”, che Giuliano Pisapia ha definito la “Nuova casa del centrosinistra” e che raccoglie una serie di sigle di quell’area. In innumerevoli altre occasioni abbiamo visto aggregazioni di sigle politiche che però non sono riuscite ad aggregare i rispettivi elettorati, producendo nelle urne risultati molto deludenti rispetto alle aspettative. Perché questa crede che possa essere, se lo crede, un’esperienza diversa?
C’è un processo in corso che ha avuto sabato a Santi Apostoli una tappa. Ne ha avuta un’altra prima, il 18 giugno, al Brancaccio. Quindi gli affluenti che possono concorrere al grande fiume di una proposta politica in grado di tornare a rappresentare il lavoro, la giustizia sociale, la sostenibilità ambientale, la democrazia costituzionale, sono diversi e raccolgono non solo porzioni di forze politiche, ma anche energie della cittadinanza attiva; in particolare quelle che si sono misurate con la vittoria del No il 4 dicembre scorso. Questo è un elemento, per venire alla tua domanda, che motiva le ragioni per cui stavolta è diverso rispetto ad altre volte. E poi c’è un’altra ragione fondamentale. Noi in questi anni, almeno dalle elezioni dell’Emilia Romagna del novembre 2014, che sono state il primo momento elettorale dopo l’approvazione del jobs act, abbiamo registrato un crescente allontanamento, distacco, rottura, ostilità di una parte di quel popolo di sinistra rispetto al Partito Democratico. C’è un vuoto, un deficit di rappresentanza, che spiega poi anche la crescente disaffezione/astensione dal voto. Quindi ci sono ragioni di fondo, non i capricci di qualche fuoriuscito da Pd – come continuano a ripetere alcuni strumentalmente. Ci sono ragioni di fondo a motivare la necessità di una proposta politica che torni a rappresentare il lavoro.
Una proposta politica che dovrebbe però rappresentare una rottura significativa rispetto alle politiche fin qui tenute negli ultimi anni dal Partito Democratico. Il punto è che l’elettorato a cui ci si rivolge sembra essere, in realtà, quasi lo stesso.
No, non è così. L’elettorato a cui ci si rivolge è quell’elettorato innanzitutto che non è andato più a votare, perché anche qualche settimana fa, alle elezioni a amministrative a Genova, a Pistoia – parlo di roccaforti, un tempo, di territori che erano luoghi di insediamento molto intenso, storico, della sinistra – abbiamo avuto un crollo della partecipazione al voto. Quindi non è lo stesso elettorato. Noi vorremmo puntare ad un elettorato che se ne è andato, o nell’astensione o anche verso altre proposte, come i 5 Stelle. Ma anche a destra, come abbiamo visto anche in altri paesi europei. La competizione non è sul residuo bacino elettorale del Pd. La competizione è per riconquistare un popolo che oggi non guarda il Pd, non guarda nessuno, oppure guarda verso interlocutori, che noi consideriamo interlocutori inadeguati.
Lei invocava un cambio di rotta nelle politiche del nostro paese, delle politiche che siano più chiaramente rivolte a sinistra. Come si può conciliare l’idea di portare avanti politiche di questo genere con una permanenza all’interno dell’Unione europea? Mi spiego meglio… Poniamo il caso che questa formazione giunga al 51% e vada a governare. A quel punto poi c’è da fare i conti con gli altri leader europei: la Francia, la Germania, le politiche che l’Unione Europea pretende che vengano attuate nel nostro paese. Diventa complicato. O no?
Assolutamente sì. Quello che, ad esempio Syriza e Alexis Tsipras stanno sperimentando in Grecia – un partito con una proposta politica radicalmente alternativa al neoliberismo, che vinse nel luglio 2015 il referendum a larghissima maggioranza, quello che disse NO al memorandum della Troika – e si trova, da allora, ad attuare un programma neoliberista. Quindi è evidente che c’è una contraddizione… C’è un conflitto che si deve aprire con un impianto normativo dell’Unione europea e dell’eurozona, con un’agenda liberista che è contraddittoria con gli obiettivi di valutazione del lavoro, di redistribuzione del reddito e anche con la crescita, perché poi la svalutazione del lavoro e l’aumento delle disuguaglianze pesa negativamente anche sulle possibilità di crescita e di occupazione. Quindi si apre un conflitto, una vertenza, un negoziato, si compiono atti che possono anche contraddire la normativa europea. Faccio un esempio. In queste ore ricominciamo a discutere alla Camera del decreto per il salvataggio delle banche venete. Il governo ha detto, rispetto alla nostra proposta – l’ingresso dello Stato nel capitale della banche – che non l’ha potuto fare perché la normativa europea lo impedisce. Ecco, da questo punto di vista avremmo dovuto fare una forzatura. Entrare con i soldi dello Stato nel capitale della banche per fare in modo di non dare a BancaIntesa la parte buona e lasciare sulle spalle dei contribuenti i crediti inesigibili; ma cercare di tenere insieme i due pezzi e fare in modo di minimizzare l’impatto del salvataggio sui contribuenti. Il governo non l’ha fatto, invece si sarebbe dovuto fare, andando fino in fondo alla Corte di Giustizia, se necessario, per affermare il primato della nostra Costituzione rispetto a trattati europei che ne contraddicono radicalmente i principi.
Parliamo comunque di una rimodulazione delle politiche europee. Non è contemplata invece un’ipotesi di uscita dell’Italia dall’Unione…
Guardi, le scorciatoie purtroppo non ci sono. Noi dobbiamo fare in modo che in una fase così complicata ci siano atti unilaterali. E’ chiaro che il governo che in Italia avesse la forza e la determinazione di una radicale svolta rispetto al quadro normativo europeo dovrebbe innanzitutto cercare alleanze con altri governi e costruire un fronte comune, perché non ci sono atti unilaterali che consentono di migliorare la situazione. Le soluzioni alternative allo status quo vanno costruite con un arco di paesi europei, quelli più colpiti nell’Eurozona, altrimenti non funzionano.
Potremmo pensare ad Italia, Grecia, Portogallo….
Spagna…
Che hanno anche una direzione a sinistra, un governo a sinistra …
Sì, ma anche forze importanti dell’opposizione. Perché in Spagna il governo non è di sinistra, ma ci sono forze importanti all’opposizione come Podemos; e mi pare che sempre di più il partito socialista, con la rielezione di Sànchez, voglia prendere le distanze dal governo Rajoy. Quindi si tratta di fare un’operazione di relazione tra governi, ma di relazione anche con quelle forze politiche che spingono nella stessa direzione. E’ evidente che non c’è nulla di facile. Non ci sono soluzioni tecniche da attivare. C’è un lavoro politico intenso da fare e anche atti di discontinuità, a partire da una legge di bilancio che, se fosse per noi, dovrebbe prevedere la sospensione del fiscal compact e il finanziamento di investimenti in piccole opere pubbliche; piccole opere per far ripartire il lavoro, per mettere in sicurezza il territorio o mettere in sicurezza le scuole pubbliche.
Le foto sono tutte di Patrizia Cortellessa.

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