dinamopress Riccardo Carraro
La
situazione dei prigionieri politici palestinesi è da sempre un nodo
centrale all’interno del conflitto mediorientale, per numerosi motivi.
È
noto quanto il sistema giudiziario israeliano sia estremamente
repressivo e preveda l’uso massiccio del carcere per chi si opponga,
anche in forma non violenta, all’occupazione militare.
In questi 50 anni di occupazione della West Bank e Gaza, sono stati circa 800.000
i palestinesi che hanno trascorso brevi o lunghi periodi nelle carceri
israeliane. Inoltre, è pratica comune la detenzione amministrativa di 6
mesi, sempre rinnovabili, che permette l’arresto anche senza prove
concrete. Tale pratica è stata ereditata dal sistema legislativo del
Mandato Britannico e incorporata nella legge israeliana.
Per
questa ragione il “passare del tempo in carcere in Israele” è diventato
quasi un'istituzione sociale, in quanto detenuti di diversi villaggi e
orientamenti politici potevano conoscersi, confrontarsi e rafforzare la
determinazione nella lotta, pur nella durezza delle condizioni
carcerarie e nelle gravi privazioni che la detenzione comporta. Per
lunghi periodi, soprattutto durante la prima intifada, il carcere
israeliano è stato una vera e propria scuola di formazione politica, in
cui i militanti e i quadri dei vari partiti si sono formati e sono
cresciuti per poi tornare all’attivismo una volta terminata la
detenzione. Ad oggi, questo sistema è fortemente indebolito perché la
detenzione avviene in condizioni ancora più difficili che limitano molto
la socialità e l’incontro tra detenuti, anche se la funzione sociale di
propulsore politico è rimasta.
Anche
in anni recenti, movimenti e proteste lanciate dai detenuti hanno
sempre avuto un impatto significativo e trasversale in tutta la società e
sono riusciti a trascinare la popolazione in larghe manifestazioni di
supporto.
Un ruolo fondamentale in queste proteste è sempre stato quello di Marwan Barghouti,
leader indiscusso di Fatah, detenuto dal 2002, e unico politico
palestinese capace di aggregare attorno a sé un consenso trasversale.
Marwan è ancora oggi l’unica figura nazionale unificatrice, simbolo di
determinazione nella lotta e di serietà e onestà, che invece molti altri
politici palestinesi non sono più in grado di dimostrare per l’opacità
delle scelte, l’ambiguità delle posizioni, la corruzione e la complicità
con gli occupanti. Non è certo un caso che ogni trattativa per il suo
rilascio e un suo ritorno alla vita politica sia naufragata.
Tra
le varie forme di protesta portate avanti dai detenuti politici lo
sciopero della fame è sempre stato tra quelle più utilizzate. Israele ha
spesso fatto ricorso a misure repressive anche contro questa pratica,
come l’alimentazione forzata o l’ulteriore isolamento dei detenuti.
Siamo
arrivati oggi al ventinovesimo giorno di sciopero della fame nelle
carceri israeliane, lanciato questa volta da Marwan Barghouti in
persona, con un forte articolo di denuncia
pubblicato sul New York Times, che ha permesso di dare visibilità a
livello internazionale alle condizioni carcerarie imposte dallo stato di
Israele
I
prigionieri chiedono un miglioramento delle condizioni di vita nelle
carceri, l’accesso costante alle cure mediche, spesso negate dalle
autorità carcerarie, il rispetto del diritto di visita di legali e
familiari e soprattutto la fine dell’utilizzo della detenzione
amministrativa.
Anche
questa volta, la protesta ha scosso nel profondo la società
palestinese. Sono state organizzate manifestazioni di protesta in molte
città. In una di queste, venerdì 12 maggio, nel villaggio di Nabi Saleh,
famoso per le sue proteste contro l’occupazione militare, è stato
ucciso da un militare israeliano Saba Obeid, un ragazzo di 22 anni.
La
reazione dei politici israeliani davanti allo sciopero è stata
indifferenza, aperta ostilità, fino all’arroganza sadica di un membro
della Knesset che, insieme ad altri componenti del suo partito di
estrema destra, ha organizzato barbecue davanti alla prigione di Ofer.
La situazione politica tra Israele e Palestina è incagliata in un pericoloso cul-de-sac,
perché da un lato Israele avanza nelle sue politiche estremiste e
razziste, dall’altro la leadership palestinese non è riuscita a
costruire proposte concrete che potessero avviare la mobilitazione
sociale o la trattativa diplomatica. In questo momento entrambe sono
drammaticamente silenti. Mentre le colonie si espandono e la Knesset
continua a sfornare leggi razziste, la violenza dell’occupazione
continua.
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