dinamopress Silvia Talini
Una riflessione in chiave costituzionale su senso e funzione delle misure di prevenzione, strumenti di controllo sociale potenziati dalle misure “a tutela del decoro” introdotte dal decreto legge sulla sicurezza urbana di Minniti e di recente convertito in legge dal Parlamento
È
del 21 aprile scorso l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza
urbana (n. 48/2017), un intervento che, potenziando il quadro delle
misure di prevenzione personali (e non solo), amplia la possibilità di
ricorrere a strumenti di sicurezza idonei a comprimere le garanzie
costituzionali poste a tutela dei diritti.
Ma cosa sono le misure di prevenzione e perché vengono spesso considerate uno strumento repressivo di dubbia costituzionalità oggi rafforzato dalla legge n. 48 del 2017?
Rispondere,
impone di andare alla radice della loro funzione: impedire la
commissione di delitti da parte di persone considerate – a vario titolo –
socialmente pericolose, indipendentemente dalla commissione di un reato.
L’applicazione è, quindi, interamente fondata sulla possibilità che si
possano compiere – anche solo nel futuro – attività genericamente
considerate “antisociali”, in grado cioè di mettere in (astratto)
pericolo la sicurezza o l’ordine pubblico, così giustificando una
vigilanza anticipata.
Qui
il primo dubbio di legittimità: è possibile limitare la libertà
personale sulla base di un giudizio prognostico basato esclusivamente
sulla personalità e sulle abitudini di vita di una persona che non ha
commesso un reato? La Costituzione sembra escluderlo. Gli articoli 13 e 25,
prevedendo che nessuno possa essere “punito” con la restrizione della
libertà se non in forza di una legge, sembra negarlo chiaramente. Il termine punizione, infatti, implica necessariamente la commissione di un comportamento illecito, comportamento non richiesto per l’applicazione delle misure di prevenzione.
Se
già il presupposto applicativo di tali misure appare largamente
contrastante con le garanzie costituzionali, analoghi problemi emergono
anche in relazione alla possibilità che alcune restrizioni – oltre che
dai giudici – possano essere disposte direttamente dalle forze di pubblica sicurezza.
“Rimpatrio
con foglio di via” ed “avviso orale” sono, infatti, tipiche misure di
polizia di competenza del Questore, esterne a ogni processo ma in grado
di incidere in maniera significativa su vita, abitudini e scelte
personali dei destinatari. Il foglio di via, imponendo il ritorno nel
comune di residenza e impedendo il rientro nel luogo di allontanamento,
condiziona l’esercizio di numerosi diritti costituzionalmente tutelati
quali – fra i tanti – lavoro, istruzione, libertà di circolazione e
relazioni affettive.
L’avviso
orale, che consiste in un generico invito a mantenere un “comportamento
conforme alla legge”, sembra non incidere significativamente sulle
abitudini di vita; non è così. Ad alcune condizioni, l’avviso può
contenere una serie di limitazioni (divieto di utilizzare qualsiasi
apparecchio di comunicazione, di possedere giocattoli riproducenti armi o
qualunque mezzo idoneo allo sprigionarsi di fiamme e altre ancora).
Tuttavia, anche quando ne è privo, l’avviso è in grado di alterare concretamente le abitudini di vita.
Nascondendosi dietro la protezione di generiche e indeterminate
categorie come sanità, sicurezza o tranquillità pubblica la persona è
indotta ad allontanarsi da realtà che, in tempi di “emergenza sicurezza”
e smantellamento del sistema di welfare, si trasformano
facilmente da “fenomeni” a “pericoli” sociali. Basti pensare ad
occupazioni abitative, centri sociali, campi rom, presidi, scioperi e
così via.
Tutto
questo è costituzionalmente legittimo? Anche qui la Costituzione appare
di segno opposto. L’art. 13, attribuendo ai soli giudici la possibilità
di limitare la libertà personale con un atto motivato (riserva di
giurisdizione), sembra escludere ogni sua possibile restrizione da parte
delle forze di pubblica sicurezza. Inoltre, l’invito a comportarsi
secondo legge, determinando un’alterazione di fatto delle proprie
abitudini e scelte di vita, rischia di trasformarsi in un’illegittima
“minaccia dell’azione penale”, anche questa in aperto contrasto con le
garanzie costituzionali (art. 25, co. 2 Cost.) e il principio di
tipicità dell’azione penale (art. 1 del c.p.).
Nonostante
queste riflessioni, le forze politiche attualmente al Governo sembrano
ancora oggi considerare le misure di polizia come un valido strumento a
tutela della sicurezza: lo dimostra la recentissima legge n. 48 del 2017
che ha convertito il decreto contenente le “Disposizioni urgenti in
materia di sicurezza delle città”, un articolato pacchetto di misure
volte a potenziare l'intervento di enti e forze di polizia locali nella
c.d. lotta al “degrado delle aree urbane”.
Secondo quanto disposto dall’art. 9, spetta alla polizia locale accertare se siano compiute «condotte
che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle aree interne delle
infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e
di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative
pertinenze». In caso di violazione, i trasgressori saranno
destinatari di una multa fino a 300 euro e - qui il profilo di maggiore
frizione con le garanzie costituzionali - potranno essere allontanati
dal luogo di commessione dell’illecito e dalla stessa città a seguito di
un provvedimento di un’autorità politico-amministrativa: il sindaco.
Quest’ultimo
si eleva, dunque, ad attore della sicurezza assumendo un potere simile a
quello esercitato da questori e procuratori nell’applicazione delle
misure di prevenzione. Ciò che cambia, ampliando il raggio d’azione
delle misure limitative della libertà personale che sfuggono, almeno in
prima battuta alla garanzia giurisdizionale posta dall’art. 13 della
Costituzione, è il presupposto applicativo: se per le misure di
prevenzione questo si indentifica nella presunta pericolosità sociale
del destinatario, la legge n. 48 lo rende ancora più evanescente,
individuandolo nel “fastidio sociale” e nell’“attacco al decoro”.
Lo
stesso articolo 10, rubricato “Divieto di accesso”, sembra confermare
questo legame: in caso di reiterazione della condotta e «qualora da questa possa derivare un pericolo per la sicurezza», al
questore viene riconosciuto il potere di impedire la permanenza
nell’area fino a sei mesi, che possono diventare due anni se il
comportamento è compiuto da persone condannate in via definitiva, o in
appello, per reati contro la persona o il patrimonio nei cinque anni
precedenti.
Quanto
detto sembra condurre ad una naturale conclusione: l’approvazione della
legge sulla sicurezza urbana e l’ampio utilizzo delle misure di
prevenzione dimostrano come, nonostante la chiarezza delle garanzie
costituzionali, le restrizioni di polizia – alle quali si affiancano
oggi le misure dei sindaci a tutela del decoro – siano ancora largamente
utilizzate, limitando autodeterminazione e libertà personale attraverso
il richiamo a evanescenti “sintomi antisociali” complice, naturalmente,
un’illegittima interpretazione della Costituzione in chiave “securitaria”.
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