L’articolo riguardante il rilancio della manifattura emiliana attraverso la cosiddetta rivoluzione industriale 4.0
ha sollevato attenzione sulla veloce trasformazione in atto nel sistema
produttivo italiano. Qui la riflessione del lettore che si firma The Industrialist.
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Ho trovato significativo che il trio di conferenze volte a sdoganare l’innovazione di processo – perchè di questo si tratta al netto delle roboanti definizioni da vocabolario social
– sia stato messo in piedi dalla Messe Frankfurt, fatto che
implicitamente segnala una sorta di conflitto d’interessi
(interessatissimo) del capitale tedesco nell’operazione.
La
Germania è certamente la principale manifattura del continente,
soprattutto è l’unica dotato delle economie di scala capaci di sostenere
lo sviluppo di innovazioni di processo spinte – nonostante anche da
quelle parti non si disdegni la sofisticazione spudorata dei propri
risultati, vedasi Dieselgate, e nonostante una carenza cronica degli
investimenti anche in terra tedesca – in grado di rendere la produzione
sempre più drasticamente autonoma dal “fattore umano”.
E’,
quindi, perfino banale sottolineare come proprio il capitale tedesco
abbia tutto da guadagnare dal profondo svecchiamento del sistema
produttivo italiano, che aprirebbe alle Siemens di turno nuovi mercati,
rimasti per altro orfani dei competitori nazionali che nel settore erano
tutti in mano pubblica; segnatamente il conglomerato Ansaldo, poi
confluito in Finmeccanica/Leonardo che, a far data dalla vulgata
privatizzatrice post “mani pulite”, ha progressivamente smantellato
tutta quella produzione che non fosse più o meno strettamente correlata
con il militare e in cui, peraltro, le maestranze italiane se la
giocavano piuttosto bene. Si pensi ad Ansaldo Industria e Ansaldo
Energia, ma anche all’Elsag delle produzioni nel settore
dell’automazione postale.
Risulta
invece meno banale riflettere sul fatto che un allineamento di quanto è
sopravvissuto della manifattura nazionale agli standard del centro
Europa, garantirebbe migliore qualità e probabilmente prezzi più più
competitivi – almeno nel medio termine – proprio alla stessa grande
industria tedesca, notoriamente committente per la produzione nazionale.
Potenzialmente,
dunque, ci troviamo di fronte a una partita di giro in cui a vincere è
comunque il capitale tedesco, che dall’operazione potrebbe guadagnare
anche l’occasione per ridimensionare le pretese dei partner est europei,
artefici materiali di larga parte del “successo” della grande industria
tedesca nell’ultimo decennio mediante delocalizzazioni a prezzo di
costo o quasi.
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