martedì 30 maggio 2017

Il referendum eluso. Breve storia sul ritorno dei voucher.

Sono tempi di "manovrina", quella per aggiustare i conti pubblici lasciati in eredità dal precedente governo. E – come sempre – questi provvedimenti omnibus sono treni a cui ciascuno aggancia i vagoni che preferisce (anche a rischio di incostituzionalità, considerato che si tratta comunque della conversione di un decreto legge, per cui la Consulta richiede omogeneità).
 
Un vagone aggiunto è proprio l'emendamento di Titti Di Salvo (deputata del Pd eletta nelle file di Sel) nella riformulazione del relatore Mauro Guerra, approvato in Commissione con 19 voti favorevoli, 6 voti contrari e nessun astenuto, che reintroduce, con alcune modifiche (art. 54-bis della legge di conversione), i voucher, che erano stati eliminati con decreto legge 25 del 2017, convertito con legge 49 del 2017, dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato l'ammissibilità del referendum per la loro totale abrogazione (sent. 28 del 2017).
I referendum sociali presentati dalla CGIL erano tre: quello sui licenziamenti illegittimi (art. 18), dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale; quello sulle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti e, appunto, quello sui voucher, ammessi al voto popolare.
Nonostante fosse il primo quello su cui si concentrava la maggiore attenzione, anche l'ultimo era considerato in grado di portare alle urne molti elettori, visti anche i numerosi riscontri sull'abuso di questo strumento, che aveva portato al superamento dell'occasionalità, tanto che la stessa Corte costituzionale aveva sottolineato come "l'evoluzione dell'istituto, nel trascendere i caratteri di occasionalità dell'esigenza lavorativa cui era originariamente chiamato ad assolvere, lo ha reso alternativo a tipologie regolate da altri istituti giuslavoristici".
Quindi, il Governo, con il suddetto decreto legge 25 del 2017, superava entrambi i quesiti referendari rimasti in piedi dopo il giudizio della Corte e, in base all'art. 39 della legge n. 352 del 1970, l'Ufficio centrale per il referendum dichiarava di conseguenza la cessazione delle operazioni referendarie.
Ora, dopo poche settimane, proprio nei giorni in cui si sarebbe dovuto svolgere il referendum (previsto per domenica 28 maggio), i voucher vengono reintrodotti, seppure con alcune modifiche rispetto alla disciplina precedente, in evidente frode al referendum, o – per dirla più chiaramente – per la possibilità dei cittadini di esprimersi sulla questione. Se il Governo avesse ritenuto che i voucher non dovessero essere del tutto eliminati, ma modificati, come l'emendamento presentato alla manovrina fa, avrebbe dovuto a suo tempo proporre non l'eliminazione, ma la sostituzione della precedente normativa con una nuova (come quella ora approvata in Commissione). In tal caso, infatti, sempre in base all'art. 39 della legge n. 352 del 1970 (come modificato dalla Corte con sent. n. 68 del 1978), l'Ufficio centrale non avrebbe dichiarato cessate le operazioni referendarie, ma avrebbe trasferito il quesito sulla nuova disciplina, consentendo agli italiani di pronunciarsi in merito.
Il percorso seguito dal Governo e dalla maggioranza (che in realtà non pare quella che lo ha sostenuto finora, ma forse quella che lo sosterrà in futuro) è stato quindi evidentemente compiuto in frode agli elettori, per timore che questi si pronunciassero. La maggioranza sembra, in effetti, sempre preoccupata dal voto dei cittadini, che di fronte alla proposta sulla quale il Governo Renzi aveva maggiormente investito (cioè la riforma della Costituzione) l'ha vista respingere sonoramente (con quasi il 60% dei contrari).
È da precisare che rispetto ai referendum già in altre occasioni gli elettori sono stati raggirati, con la reintroduzione di norme sostanzialmente analoghe a quelle abrogate; ricordiamo, ad esempio, il caso del finanziamento pubblico ai partiti politici (eliminato solo nel 2013) o quello del Ministero dell'agricoltura (che esiste ancora). Il caso forse più clamoroso si è registrato a seguito del voto nei referendum del 2011 (gli unici ad avere raggiunto il quorum dopo il 1995), quando il Governo Berlusconi reintrodusse una disciplina sui servizi pubblici locali, sostanzialmente riproduttiva di quella abrogata soltanto poche settimane prima, con la conseguente dichiarazione d'incostituzionalità della Corte costituzionale (sent. 199 del 2012).
Nel caso che ci occupa, invece, non ci sarà neppure questa possibilità perché gli elettori sono stati defraudati, non rispetto alla volontà espressa, ma alla stessa possibilità di esprimerla. Come direbbe una certa retorica degli ultimi tempi, ancora una volta si è fatto un passo avanti, sempre nella direzione di restringere gli spazi di espressione della sovranità popolare.

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