“Così, mentre me ne stavo distesa a letto, incapace di sfilare in corteo, di tenere in mano un cartello, di gridare uno slogan per farmi sentire, o di essere visibile in qualsiasi altra forma tradizionale come essere politico, ha preso forma la domanda centrale della Teoria della donna malata: come si fa a lanciare un mattone contro le vetrine di una banca se non puoi alzarti dal letto?”.
1.
Alla fine del 2014 sono stata bloccata a letto a causa di una malattia cronica che, ogni 12-18 mesi circa, peggiora al punto da rendermi incapace, per cinque mesi di seguito, di camminare, guidare, svolgere il mio lavoro, a volte parlare o comprendere il linguaggio, fare un bagno senza assistenza e lasciare il letto. Questa riacutizzazione in particolare è coincisa con le proteste di Black Lives Matter, alle quali avrei partecipato assiduamente, se ne fossi stata in grado. Abito a un isolato di distanza dal MacArthur Park a Los Angeles, un quartiere a predominanza latina, conosciuto informalmente come il luogo nel quale molt* immigrat* iniziano la loro vita americana. Non c’è da stupirsi, quindi, che il parco sia uno dei luoghi della città più attivi della protesta.
Ascoltavo il rumore dei cortei che arrivava fino alla mia finestra. Inchiodata a letto, sollevavo il mio pugno di donna malata, in segno di solidarietà.
Ho iniziato a riflettere su quali siano le modalità di protesta concesse a chi è malat*: avevo l’impressione che molte persone per le quali la protesta Black Lives Matter è particolarmente rilevante, forse non potevano essere presenti ai cortei, perché erano imprigionate da un lavoro, dalla minaccia di essere licenziate se fossero andate alla manifestazione, o dall’incarcerazione vera e propria, e ovviamente dalla minaccia della violenza e della brutalità della polizia – ma anche a causa della malattia o della disabilità, o perché si stavano prendendo cura di qualcun* con una malattia o disabilità.
Ho pensato a tutti gli altri corpi invisibili, con i pugni alzati, rincattucciati da qualche parte, lontani dagli sguardi.
Se consideriamo la definizione di “politica” di Hannah Arendt – che è ancora una delle definizioni dominanti nel discorso mainstream – come qualsiasi azione che ha luogo in pubblico, dobbiamo confrontarci con le implicazioni di ciò che essa esclude. Se essere presenti in pubblico è la conditio sine qua non perché vi sia politica, allora intere masse di popolazione possono essere considerate a-politiche, per il semplice fatto che non sono fisicamente in grado di portare i loro corpi nelle strade.
Quando studiavo all’università, Arendt era un mostro sacro, e quindi mi è stato insegnato che la sua definizione di politica era radicalmente liberatoria. Certo, capisco che lo fosse a modo suo, ai suoi tempi (alla fine degli anni ’50): in un sol colpo si è sbarazzata della necessità delle infrastrutture della legge, del processo democratico del voto, di appoggiarsi a quegli individui che hanno accumulato il potere di influenzare i provvedimenti politici – si è sbarazzata della necessità di quelle stesse misure. Tutti questi elementi erano necessari perché un’azione fosse considerata politica e visibile come tale. No, ha detto Arendt, basta che porti il tuo corpo per strada, ed ecco che – bam! – è politica.
Ci sono due falle in questo ragionamento, però. La prima è il suo fondarsi su un’idea di “pubblico”, che richiede un “privato” – un binarismo tra spazio visibile e invisibile. Ciò vuol dire che qualsiasi cosa accada in privato non è politica. Quindi, puoi picchiare tua moglie in privato, per esempio, e questo non ha importanza. Puoi mandare email contenenti insulti razzisti, ma, poiché non erano “destinate al pubblico”, in qualche modo non sei razzista. Arendt si preoccupava del fatto che se tutto può essere considerato politico, allora nulla lo è veramente, e per questo ha diviso lo spazio in politico e non politico. Ma, mossa da questa preoccupazione, ha scelto di sacrificare interi gruppi di persone, di continuare a relegarli nell’invisibilità e nell’irrilevanza politica. Ha scelto di tenerli fuori dalla sfera pubblica. Non sono la prima a criticare Arendt per questo motivo. La fallacia del concetto di politica di Arendt fu subito denunciata dall’attivismo per i diritti civili e dal femminismo degli anni ’60 e ’70. “Il personale è politico” può essere letto anche come “il privato è politico”. Perché, certo, tutto ciò che si fa in privato è politica: con chi fai sesso, quanto a lungo durano le tue docce, se, prima di tutto, hai accesso ad acqua pulita per farti una doccia, e così via.
C’è anche un altro problema. Come ha notato Judith Butler in una sua conferenza del 2015 su “Vulnerabilità e resistenza”, Arendt ha omesso di affrontare la questione di chi ha il permesso di entrare nello spazio pubblico, di chi prende le decisioni nel pubblico. O, più in particolare, di chi prende le decisioni su chi entra. Butler dice che c’è sempre un dato vero nelle manifestazioni pubbliche: la polizia è già lì oppure sta per arrivare. Questa osservazione risuona con una potenza terrificante se consideriamo il contesto di Black Lives Matter. L’inevitabilità della violenza in una manifestazione – soprattutto una manifestazione nata per sottolineare l’importanza di corpi che sono stati lasciati con violenza senza cure – garantisce che un certo numero di persone non verrà, perché non è nelle condizioni di farlo. Se a ciò aggiungiamo malattie e disabilità fisiche e mentali che tengono le persone a letto e a casa, dobbiamo fare i conti con il fatto che molte persone per le quali sono pensate queste proteste non sono in grado di parteciparvi – il che vuol dire che non sono in grado di essere visibili come attivist* politic*.
In quelle settimane di protesta, sulla mia dashboard è comparso un post di Tumblr che diceva qualcosa del tipo: “gridiamo forte per tutte le persone disabili, malate, persone che soffrono di PTSD [disturbo post traumatico da stress], attacchi d’ansia, eccetera, che non possono protestare con noi in strada stasera. Le vostre voci sono ascoltate e importanti, e sono con noi”. Metto il simbolo del cuore. E ribloggo.
Così, mentre me ne stavo distesa a letto, incapace di sfilare in corteo, di tenere in mano un cartello, di gridare uno slogan per farmi sentire, o di essere visibile in qualsiasi altra forma tradizionale come essere politico, ha preso forma la domanda centrale della Teoria della donna malata: come si fa a lanciare un mattone contro le vetrine di una banca se non puoi alzarti dal letto?
2.
Soffro di una malattia cronica. Per chi non sa cosa significhi una malattia cronica, lo spiego: la parola “cronico” viene dal greco chronos, che vuol dire “tempo” (pensate alla parola “cronologia”) e in particolare significa “il tempo di una vita”. Quindi una malattia cronica è una malattia che dura una vita. In altre parole, non migliora. Non c’è cura. E pensate al peso del tempo: sì, significa che sentite la malattia ogni giorno. In occasioni molto rare, vivo un istante come se qualcosa mi avesse allontanata dal mondo, in cui mi rendo conto di non avere pensato alla mia malattia per alcuni minuti, magari per alcune ore preziose. Questi beati momenti di oblio rappresentano per me ciò che più si avvicina a un miracolo. Quando si ha una malattia cronica, la vita si riduce a un incessante razionamento di energie. Costa fare qualsiasi cosa: alzarsi dal letto, cucinarsi qualcosa da mangiare, vestirsi, rispondere a un’email. Chi non ha una malattia cronica può impiegare tutte le proprie energie senza conseguenze. Il costo non è un problema. Chi tra noi ha risorse scarse deve razionarle, perché ha scorte limitate: spesso si esauriscono prima dell’ora di pranzo.
Sono arrivata a pensare alla malattia cronica in modi diversi.
Ann Cvetkovich scrive: “E se la depressione, almeno nelle Americhe, potesse essere ricondotta alle storie di colonialismo, genocidio, schiavitù, esclusione legale, segregazione e isolamento quotidiani che infestano come fantasmi le vite di noi tutt* piuttosto che essere rappresentata come uno squilibrio biochimico? Vorrei ridefinire la parola “depressione” per estenderla a tutte le malattie mentali. Cvetkovich continua: “La maggior parte della letteratura medica tende a presumere che vi sia un soggetto bianco e borghese per il quale sentirsi male è spesso un mistero poiché non si adatta a una vita in cui il privilegio e le condizioni agiate fanno sembrare che tutto vada bene in superficie.” In altre parole, lo stare bene, per come se ne parla oggi in America, è un’idea bianca e benestante.
Voglio citare Starhawk che, nella prefazione alla nuova edizione del suo libro del 1982 Dreaming the Dark [Sognando il buio] scrive: “Gli psicologi hanno costruito un mito: che esista da qualche parte uno stato di salute che è la norma, nel senso che si presume che la maggior parte della gente si trovi in quello stato, e le persone depresse, nevrotiche, stressate, o generalmente infelici, siano anormali”. Qui sostituirei la parola “psicologi” con “supremazia bianca”, “dottori”, “il tuo capo”, “neoliberismo”, “eteronormatività” e “America”.
Negli ultimi anni si è scritto molto su come venga trattato il dolore “femminile”, o piuttosto, come non venga trattato con la stessa serietà con cui si tratta quello degli uomini nelle cliniche e nelle sale di pronto soccorso, da dottori, specialisti, compagnie assicurative, famiglie, mariti, persone amiche e dalla cultura nel suo insieme. In un recente articolo su The Atlantic, intitolato “How Doctors Take Women’s Pain Less Seriously” [“Come i dottori prendono meno seriamente il dolore femminile”], un marito racconta dell’esperienza della moglie Rachel e della sua lunga attesa in un pronto soccorso prima di ricevere le attenzioni mediche che la sua patologia richiedeva legittimamente (una torsione ovarica, caso che si verifica quando una cisti ovarica cresce a tal punto da dislocarsi e causare una torsione delle tube di Falloppio). “A livello nazionale, gli uomini aspettano in media 49 minuti prima di ricevere un analgesico per un dolore addominale acuto. Per lo stesso disturbo, le donne aspettano in media 65 minuti. Rachel ha aspettato tra i 90 minuti e le due ore”, scrive il marito. Alla fine di tutte le traversie, Rachel ha dovuto aspettare quasi 15 ore prima di essere sottoposta all’operazione chirurgica che avrebbero dovuto eseguire al suo arrivo. L’articolo si conclude parlando delle sue ferite fisiche in via di guarigione, ma sottolineando il fatto che “a livello psicologico, sta ancora pagando il prezzo di ciò che lei chiama ‘il trauma di non essere viste’”.
Quello che l’articolo non specifica è la razza, il che mi porta a credere che l’autore e sua moglie siano bianchi. La bianchezza è ciò che permette questa neutralità inconsapevole: è la premessa dell’indifferenziazione, la presunzione dell’universale. Alcuni studi hanno dimostrato che le persone bianche prestano ascolto ad altre persone bianche, quando si parla di razza, con maggiore apertura rispetto a quando si trovino a farlo con una persona di colore. In quanto persona che passa abitualmente per bianca, voglio rivolgermi direttamente alle persone bianche: guardatemi in faccia e prestate attenzione!
Il trauma di non essere viste. Di nuovo, a chi è permesso di entrare nella sfera pubblica? A chi è permesso di essere visibile? Non intendo sminuire l’esperienza orribile di Rachel – io stessa una volta ho dovuto aspettare dieci ore in una sala del pronto soccorso per farmi diagnosticare la rottura di una cisti ovarica – vorrei solo fare notare i presupposti sui quali si basa la sua esperienza da incubo: che la nostra vulnerabilità dovrebbe essere vista e rispettata e che tutt* noi dovremmo ricevere cure velocemente e in modo tale da “rispettare l’autonomia del* paziente”, come affermano i Quattro Princìpi dell’Etica Biomedica. Certo, questi sono i presupposti che dovrebbero valere per noi tutt*. Ma dobbiamo chiederci a chi è permesso averli. Su quali persone la società basa queste opinioni? E a quali persone la società impone l’opposto?
Paragoniamo l’esperienza di Rachel alla mercè delle istituzioni mediche con quella di Kam Brock. Nel settembre del 2014, Brock, una donna nera di 32 anni, nata in Giamaica e residente nella città di New York, stava guidando una BMW quando fu fermata dalla polizia. Fu accusata di guidare sotto l’effetto di marijuana, e sebbene il suo comportamento e la perquisizione dell’auto non produssero alcuna prova a supporto di questa accusa, tuttavia le venne sequestrata l’auto. Secondo quanto descritto nella causa che Brock ha intentato contro lo Stato di New York e contro l’ospedale di Harlem, quando, il giorno successivo, andò a ritirare l’auto, fu arrestata dalla polizia per un comportamento che lei definisce “emotivo” e fu ricoverata contro la sua volontà nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Harlem. (Anch’io sono stata ricoverata contro la mia volontà per essermi comportata “troppo” emotivamente, perciò questa storia suona familiare nei miei ricordi). I dottori pensarono che soffrisse di delirio e disturbo bipolare, perché sosteneva che Obama la seguiva su twitter – il che era vero, ma il personale medico non si curò di verificare. Fu trattenuta lì per otto giorni, le furono iniettati a forza dei sedativi, fu costretta a ingerire psicofarmaci, a partecipare a terapie di gruppo, e spogliata. Le cartelle cliniche dell’ospedale – ottenute dai suoi avvocati – ne sono la prova: il protocollo della terapia per il ricovero di Brock recita: “Obiettivo: la paziente dovrà dichiarare che l’istruzione è importante per il lavoro e dovrà affermare che Obama non è un suo follower su twitter.” Il documento nota la sua incapacità di valutare la realtà. Una volta dimessa, le fu presentato un conto da pagare di 13.637,10 dollari.
È facile spiegare perché i dottori dell’ospedale pensarono che Brock “delirasse” quando sosteneva che Obama fosse un suo follower su twitter: perché, secondo questa società, non è possibile che una giovane donna nera sia tanto importante; e se insiste nel sostenerlo, vuol dire per forza che è “malata”.
3.
Prima che io possa parlare della “donna malata” in tutte le sue molte manifestazioni, devo esprimermi come individua e rivolgermi a voi dalla mia particolare posizione.
Io mi oppongo fortemente all’idea che il complesso industriale medico-assicurativo occidentale mi colga nella mia interezza, anche se, a quanto pare, pensa di riuscirci. Mi hanno etichettato in molti modi nel corso degli anni, e sebbene alcune di queste etichette mi abbiano fornito un’utile definizione – dopo tutto, non importa quanto stiamo lavorando per cambiare il mondo, dobbiamo pur sempre trovare il modo di affrontare la realtà presente – desidero prima suggerire altri modi di comprendere la mia “malattia”.
Forse si può spiegare tutto col fatto che la mia Luna è in Cancro nell’ottava Casa, la Casa della Morte, o che il mio Marte è nella dodicesima Casa, la Casa della malattia, dei Segreti, del dolore e dell’autodistruzione. O col fatto che la madre di mio padre è fuggita, ancora bambina, dalla Corea del Nord e ha nascosto questo fatto alla famiglia fino a pochi anni fa, quando se l’è lasciato scappare per sbaglio e poi l’ha subito negato, facendo capire tutto. O col fatto che mia madre soffre di una malattia mentale non diagnosticata e volutamente negata dalla sua famiglia, malattia poi esasperata da una dipendenza dalla droga durata 40 anni, dai traumi sessuali e dall’epatite causata da un ago sporco, malattia fino ad oggi non curata, mentre entra ed esce da carceri, centri sociali, e dalla vita di strada. O col fatto che ho subìto abusi fisici ed emotivi da bambina, sono cresciuta in un ambiente fatto di povertà, dipendenze e violenza, e sono stata separata dai miei genitori per 13 anni. Forse è perché sono povera – secondo l’IRS, nel 2014, il mio reddito lordo è stato di 5.730 dollari (conseguenza del mio non stare bene abbastanza da lavorare a tempo pieno), il che significa che la mia assicurazione sanitaria è fornita dallo stato della California (Medi-Cal), che il mio “medico di assistenza primaria” è un gruppo di assistenti e infermieri del medico in una clinica al secondo piano di un centro commerciale e che mangio grazie ai buoni pasto. Tutto questo può forse essere riassunto dalla parola “trauma”. Forse ho soltanto la pelle fragile, e ho avuto un po’ di sfortuna.
È importante che anch’io condivida la terminologia medica occidentale che mi è stata affibbiata: che mi piaccia o no, può fornire un vocabolario comune. “Questo è il linguaggio dell’oppressore,” Adrienne Rich ha scritto nel 1971, “ma ne ho bisogno per parlarti.” Vorrei offrirvi, però anche un altro linguaggio. Nella lingua dei nativi americani Cree, il sostantivo possessivo e il verbo di una frase sono strutturati in modo diverso rispetto all’inglese. In Cree, non si dice “Io sono malato”. Si dice, invece, “La malattia è venuta a me.” Mi piace e voglio onorarla.
Quindi, ecco cosa è venuta a me:
l’endometriosi, che è una malattia dell’utero in cui il rivestimento uterino cresce dove non dovrebbe – per lo più nella zona pelvica, ma anche ovunque, nelle gambe, nell’addome, anche in testa. Provoca dolore cronico; caos gastrointestinale; sanguinamenti epici, mostruosi; in alcuni casi, il cancro; e significa che ho avuto aborti spontanei, non posso avere figli e mi aspettano in futuro diversi interventi chirurgici. Quando ho spiegato la malattia ad un amico che non ne aveva mai sentito parlare, ha esclamato: “Allora tutto il tuo corpo è un utero!” Questo è un modo di vedere le cose, sì. (Immaginate che cosa potrebbero dire al riguardo gli antichi medici greci – i padri della teoria dell’”utero errante”.) Ciò significa che, ogni mese, quelle vagabonde delle cellule uterine che si sono impiantate in tutto il mio corpo “obbediscono alla loro natura e sanguinano”, per citare la compagna e endo-guerriera Hilary Mantel. Questo provoca la formazione di cisti, che alla fine scoppiano, lasciando dietro ammassi di tessuti morti, come detriti di piccole bombe.
Anche il disturbo bipolare, il disturbo da attacchi di panico e il disturbo di spersonalizzazione sono venuti a me. Ciò significa che io vivo tra questo mondo e un altro, quello creato dal mio cervello che ha cessato di essere contenuto da una concezione distinta di “sé”. A causa di questi “disturbi”, sono in grado di provare emozioni incredibilmente vivide, da voli di pensiero e paesaggi onirici, alla sensazione che la mia mente si sia dissolta nelle stelle, sensazione di essere diventata nulla, così come estasi intense, rapimenti, dolori e allucinazioni da incubo. A causa di ciò sono stata ricoverata in ospedale, volontariamente e involontariamente, e uno dei farmaci che una volta mi è stato prescritto mi ha quasi ucciso: produce un effetto collaterale raro in cui la pelle di chi lo assume si sfalda. Un altro farmaco costa 800 dollari al mese: l’ho preso solo perché il mio medico mi ha dato alcuni campioni gratuiti. Se voglio essere in grado di mantenere un lavoro – e questo mondo ha deciso che io debba essere in grado di farlo – devo prendere un farmaco anti-psicotico ogni giorno, che causa perdita di memoria a breve termine e scialorrea, tra gli altri effetti collaterali sexy. Questi visitatori hanno anche portato i loro amici: esaurimenti nervosi, crolli mentali, o come volete chiamarli, tre volte nella mia vita. Sono certa che saranno nuovamente ospiti in casa mia. Sono stati la ragione di più di una dozzina di tentativi di suicidio (la maggior parte mentre ero dissociata), il primo avvenuto a soli nove anni. Questo primo tentativo non è riuscito, solo perché dopo aver preso una manciata di sonniferi, in qualche modo mi sono svegliata il giorno dopo e sono andata a scuola, come se nulla fosse accaduto. Non l’ho raccontato a nessuno fino alla mia prima valutazione psichiatrica verso i 25 anni.
Infine, è venuta a me una malattia autoimmune che continua a lasciare perplessi tutti i medici che ho visto, e ancora si rifiuta di essere nominata. Come ha scritto Carolyn Lazard sulle sue esperienze con le malattie autoimmuni: “Le malattie autoimmuni sono difficili da diagnosticare. Per la spondilite anchilosante, il tempo medio tra l’inizio dei sintomi e la diagnosi va dagli otto ai dodici anni. Sono stato fortunata; ho dovuto attendere solo un anno”. Nomi come “MS”, “fibromialgia”, e altri che non ricordo, sono usciti dalla bocca dei miei medici; ma la mia assicurazione non copre i test diagnostici, né esiste uno specialista nel mio piano di assicurazione entro cento miglia da casa mia. Non ho abbastanza spazio qui – lo avrò mai? – per descrivere cosa significhi vivere con una malattia autoimmune. Posso dire che porta con sé una stanchezza inimmaginabile, dolori incessanti in tutto il corpo, la predisposizione a contrarre altre malattie, un organismo che svolge le sue funzioni “normali” in modo mostruosamente anomalo. Il sintomo peggiore che porta la mia malattia è l’herpes zoster cronico. Per dieci anni ho avuto l’herpes zoster nello stesso punto sulla schiena, e ora lì ho un danno neurologico, che si traduce in un dolore incessante e bruciante della pelle e un dolore sordo e bruciante delle ossa. Nonostante l’assunzione quotidiana di farmaci che dovrebbero “sopprimere” la replicazione del virus, l’herpes zoster continua a manifestarsi – è il mio canarino nella miniera di carbone, presagio di almeno tre settimane da trascorrere a letto.
Il mio agopuntore lo ha descritto come un piccolo demone che sputa fumo nero e schiuma tutto intorno, immerso nelle mie ossa.
4.
Con tutti questi visitatori, ho iniziato a scrivere la Teoria della donna malata per sopravvivere a una realtà che trovo insopportabile, e come modo per testimoniare un sé che non riesco a percepire come “mio”.
L’idea iniziale del progetto alla base della “Teoria della donna malata”, e il nome che ha ricevuto, derivano da diverse fonti. Una era in risposta alla Sad Girl Theory (Teoria della ragazza triste) di Audrey Wollen, che propone di ridefinire patologie storicamente femminilizzate come modalità di protesta politica per le ragazze: quel che più mi interessava era ciò che accade alla ragazza triste quando, e se, cresce. È stata poi stata stimolata dalla lettura del fantastico Heroines (Eroine) di Kate Zambreno e dall’impulso a sovvertire il concetto di “eroismo”, e così ho voluto proporre un’immagine nella quale le tradizionali qualità antieroiche, cioè la malattia, l’ozio e l’inazione, potessero essere rappresentative di una grande teoria. Un’altra deriva dal libro femminista del 1973 Complaints and Disorders (Disturbi e malattie), che distingue tra la “malata” dell’alta borghesia bianca e le “donne nauseanti”, non bianche, della classe operaia.
La Teoria della donna malata è per coloro che affrontano, ogni giorno, la propria vulnerabilità e la propria insopportabile fragilità, e devono perciò combattere perché la propria esperienza sia non solo rispettata, ma prima di tutto resa visibile. Per coloro che, nelle parole di Audre Lorde, non sono mai state considerate degne di sopravvivere: perché questo mondo è stato costruito contro la loro sopravvivenza. È per i/le mie* compagn* spoonies (1). Voi sapete chi siete, anche se non vi è stata data una diagnosi: uno degli obiettivi della Teoria della donna malata è quella di resistere all’idea che sia necessario essere legittimate da un’istituzione, in modo che questa possa provare ad aggiustarvi. Non avete bisogno di essere aggiustate, mie regine: è il mondo che ha bisogno di essere rifatto.
Vi propongo questa teoria come una chiamata alle armi e una testimonianza di riconoscimento. Spero che i miei pensieri siano in grado di fornire un’articolazione e una cassa di risonanza, oltre che strumenti di sopravvivenza e resistenza.
E per quell* di voi che non sono malat* cronic* o disabili, la Teoria della donna malata vi chiede di estendere la vostra empatia fino a qui. Per confrontarci, ascoltarci, vederci.
5.
La Teoria della donna malata insiste sul fatto che la maggior parte delle forme di protesta politica sono internalizzate, vissute, incarnate, sofferte e, indubbiamente, invisibili. La Teoria della donna malata ridefinisce l’esistenza in un corpo come qualcosa che è sempre e soprattutto vulnerabile, come insegna il lavoro di Judith Butler sulla precarietà e sulla resistenza. Dato che la premessa rimarca che un corpo è definito dalla propria vulnerabilità, e non temporaneamente segnato da essa, ne consegue che tale corpo, per sopravvivere, faccia continuo affidamento su infrastrutture di sostegno, ed è su questo dato che bisogna ridisegnare il mondo. La Teoria della donna malata afferma che il corpo e la mente sono sensibili e reattivi ai regimi di oppressione, soprattutto al regime odierno di cis-etero-patriarcato neoliberale, suprematista bianco e imperial-capitalista. Il punto è che i corpi e le menti di noi tutt* portano con sé questo trauma storico, ossia che è il mondo stesso a farci ammalare e a tenerci ammalat*.
Assumere il termine “donna” come posizione-soggetto di questo lavoro significa prediligere strategicamente e totalmente il particolare piuttosto che l’universale. Anche se molt* sono stat* cancellat* ed esclus* dall’identità di “donna” (soprattutto le donne di colore e le persone trans e genderfluid), scelgo di utilizzare questo termine perché continua a rappresentare le/i neglett*, le/i marginali, le/gli oppress*, chi è non-, chi è a-, chi è “meno di”. Le problematiche poste da questo termine richiederanno sempre una critica e spero che la Teoria della donna malata possa aiutare a suo modo a risolverle. Soprattutto, l’ispirazione a usare il termine “donna” mi viene dal fatto che, quest’anno, ho capito quanto sia ancora radicale essere una donna nel 21° secolo. Usarlo è una attestazione di stima nei confronti di una cara amica che lo scorso anno si è dichiarat* genderfluid. Per lei, quello che più contava era la possibilità di definirsi “donna”, di utilizzare i pronomi “lei/le”. Non voleva sottoporsi a un intervento chirurgico o assumere ormoni; il suo corpo, il suo cazzo grande le piacevano e non voleva cambiarli: voleva solo appropriarsi della parola. È con questo spirito – cioè che la parola stessa sia un’assunzione di potere – che ho dato il nome alla Teoria della donna malata.
La ‘donna malata’ è un’identità e un corpo che possono appartenere a chiunque si veda negare l’esistenza privilegiata – o la promessa spietatamente ottimistica di questa esistenza – dell’uomo bianco, eterosessuale, sano, neurotipico, di classe medio-alta, cisgender e non disabile che abita in un paese ricco, che non si è mai trovato senza un’assicurazione sanitaria e la cui importanza per la società viene riconosciuta ovunque ed esplicitata dalla società stessa; la cui importanza e le cui cure dominano quella società a spese di tutt* le/gli altr*.
La ‘donna malata’ è chiunque non abbia la garanzia di queste cure.
La ‘donna malata’ si sente dire che, per questa società, il suo benessere, e perfino la sua stessa sopravvivenza, non contano.
La donna malata incarna tutti quei corpi “disfunzionali”, “pericolosi” e “in pericolo”, “indisciplinati”, “folli”, “incurabili”, “traumatizzati”, “disturbati”, “ammalati”, “cronici”, “impossibili da assicurare”, “derelitti”, “indesiderabili” e, nel complesso, “disfunzionali” che appartengono a donne, persone di colore, povere, malate, neuro-atipiche, diversamente abili, queer, trans e genderfluid, che nel corso della storia sono state patologizzate, ospedalizzate, istituzionalizzate, brutalizzate rese “ingestibili”, quindi delegittimate a livello culturale e rese invisibili sul piano politico.
La ‘donna malata’ è una donna trans nera che viene colta da un attacco di panico quando usa un bagno pubblico, perché ha paura della violenza che la attende.
La ‘donna malata’ è chi nasce da genitori che hanno visto cancellata la propria storia indigena, e subisce il trauma di generazioni soggette a colonizzazione e violenza.
La ‘donna malata’ è chi è senza dimora, soprattutto se affett* da una qualsiasi malattia e senza accesso alle cure mediche, che non può ricevere altra assistenza psichiatrica se non un ricovero di 72 ore nell’ospedale di provincia.
La ‘donna malata’ è una donna nera con disturbi psichiatrici che è stata uccisa mentre si trovava sotto la custodia della polizia, chiamata in aiuto dai suoi familiari perché era stata colta da un attacco, e la cui storia è stata negata da tutti coloro che agiscono secondo la supremazia bianca. Questa donna si chiamava Tanesha Anderson.
La ‘donna malata’ è un cinquantenne gay che è stato stuprato da ragazzo ed è sempre rimasto in silenzio per la vergogna, convinto che gli uomini non possano subire uno stupro.
La ‘donna malata’ è una persona disabile che non ha potuto partecipare alla conferenza sui diritti dei disabili perché si teneva in una struttura con barriere architettoniche.
La ‘donna malata’ è una donna bianca che soffre di una malattia cronica causata da un trauma sessuale e deve assumere antidolorifici per riuscire ad alzarsi dal letto.
La ‘donna malata’ è un uomo etero che soffre di depressione e viene curato (gestito) con farmaci dalla prima adolescenza e ora fatica per lavorare 60 ore alla settimana come impone il suo lavoro.
La ‘donna malata’ è una persona a cui è stata diagnosticata una malattia cronica che si sente ripetere di continuo da amici e familiari che deve fare più esercizio fisico.
La ‘donna malata’ è una donna queer di colore che è attivista, intelligente, arrabbiata e depressa, tutte caratteristiche che sono malviste agli occhi della società bianca.
La ‘donna malata’ è un uomo nero ucciso mentre si trovava sotto la custodia della polizia e che, secondo la versione ufficiale, si sarebbe rotto da solo l’osso del collo. Quest’uomo si chiamava Freddie Gray.
La ‘donna malata’ è un veterano affetto da PTSD che è inserito in una lista d’attesa lunga mesi per poter essere visitato da un dottore del Veterans Affair.
La ‘donna malata’ è una madre single, immigrata illegalmente nella “terra della libertà”, che si barcamena fra tre lavori per sfamare la propria famiglia e si sente sempre più con l’acqua alla gola.
La ‘donna malata’ è la/il rifugiat*.
La ‘donna malata’ è la/il bambin* vittima di violenze.
La ‘donna malata’ è la persona affetta da autismo che il mondo tenta di “curare”.
La ‘donna malata’ è chi muore di fame.
La ‘donna malata’ è chi sta per morire.
Infine, il nodo cruciale: la ‘donna malata’ è ciò che serve al capitalismo per perpetuarsi. Perché?
Perché il capitalismo, per restare in vita, non può farsi carico delle nostre cure: la sua logica di sfruttamento esige che qualcun* di noi muoia.
La “malattia”, nel senso in cui la intendiamo oggi, è un costrutto del capitalismo, così come il suo opposto binario, lo stare “bene”. La persona che sta “bene” è la persona che sta bene per lavorare. La persona “malata” è la persona che non può lavorare. L’aspetto più distruttivo del concepire il “benessere” come stato “predefinito”, come modalità standard dell’esistenza, è il fatto che inventa la malattia come temporanea. Se essere malat* è un’aberrazione rispetto alla norma, siamo autorizzat* a pensare che lo siano anche le cure e l’assistenza.
Le cure, in questo assetto, sono necessarie solo in alcune circostanze. Se la malattia è considerata temporanea, le cure non sono la norma.
Provate a fare un esercizio: andate allo specchio, guardatevi in faccia e dite a voce alta: “Prendersi cura di te non è la norma. Posso farlo solo per un certo periodo di tempo”.
Dirlo a te stess* non è che un’eco di ciò che il mondo non fa altro che ripetere.
6.
Ho sempre pensato che i gesti più anticapitalistici in assoluto avessero a che fare con l’amore, soprattutto con la poesia d’amore: scrivere una poesia d’amore e regalarla alla persona desiderata mi sembrava un atto di resistenza radicale. Adesso so che mi sbagliavo.
La più grande protesta contro il capitalismo consiste nel prendersi cura dell’altr* e nel prendersi cura di se stess*. Assumere la pratica, storicamente femminilizzata e quindi invisibile, del curare, del nutrire, del prendersi cura. Prendere sul serio la nostra reciproca vulnerabilità, fragilità e precarietà e sostenerla, rispettarla, attribuirle potere. Proteggersi a vicenda, mettere in atto e praticare la comunità. Una parentela radicale, una socialità interdipendente, una politica della cura.
Perché una volta che siamo malat* e costrett* a letto, a scambiarci esperienze di terapia e a darci conforto reciproco, a formare gruppi di sostegno, facendoci portavoce l’un* l’altr* dei racconti dei nostri traumi, dando massima priorità alle cure e all’amore nei confronti dei nostri corpi malati, doloranti, costosi, sensibili e fantastici e non rimane nessun* che vada a lavorare, forse, allora, finalmente, il capitalismo arriverà stridendo alla tanto necessaria, tanto attesa, tanto fottutamente meravigliosa fine.
Testo adattato dalla conferenza “My Body Is a Prison of Pain so I Want to Leave It Like a Mystic But I Also Love It & Want It to Matter Politically”(“Il mio corpo è una prigione di dolore e voglio lasciarlo come una mistica, ma al tempo stesso lo amo e voglio che abbia una rilevanza politica”), tenutasi a Los Angeles il 7 ottobre 2015 presso la Human Resources e sponsorizzata dal Women’s Center for Creative Work. Il video è disponibile qui.
(1) Il termine “spoonies” deriva dalla Spoon Theory di Christine Miserandino, presente nelle note.
* Il testo di Johanna Hedva, pubblicato in originale su Mask Magazine. Traduzione di LesBitches. Grazie a Silvia Rigon per i consigli. Comune lo riprende, grazie a una preziosa segnalazione di Gea Piccardi, da LesBitches che lo ha pubblicato in seguito alla splendida traduzione di Jinny Dalloway, fatta con il sostegno dell’autrice e del collettivo di traduzioni militanti LesBitches.
Johanna Hedva è una maga psiconauta anticapitalista originaria di Los Angeles, dove vive. Scrive/dirige The Greek Cycle, un ciclo di tragedie greche riviste in chiave femminista e queer. È autrice di The Crow and the Queen, romanzo pubblicato in edizione rilegata a mano, a tiratura limitata; di Incunabula, una serie di 103 fiabe, ognuna delle quali prodotta in un libro manoscritto; di My Cellar Doors, un libro di poesie scritte su cerotti antidolorifici Salonpas; e di Permanent Winter, un libro pensato per essere seppellito nei ghiacci dell’Antartico. Questo articolo è tratto da This Earth, Our Hospital (Sick Woman Theory and Other Writings), opera di prossima pubblicazione.
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