venerdì 12 maggio 2017

per non dimenticare


 L'immagine può contenere: una o più persone e spazio all'aperto

 enrico campofreda
Ogni cosa com’era per inseguire il passato più oscuro
Stamane Alina, avevo il cuore triste come nei giorni peggiori. Ho attivato la pompa automatica del giardino e sono uscito addentrandomi nella morbida giornata d’autunno. Mi sono fatto trasportare dalla consuetudine di seguire strade conosciute. Non c’è spazio della città che non abbia percorso, qualcuno l’ho addirittura consumato in lunghi andirivieni. Certi posti mi fanno scattare l’effetto ricordo: attraversarli anche sovrappensiero apre squarci alla memoria e mi appaiono volti con cui ho condiviso pezzi di vita. La cosa mi rende felice, ma a volte ricordare con nostalgia è un po’ morire.

Da mesi, attraversando il fiume, mi fermo su uno dei ponti più armoniosi e tuffo gli occhi in un’acqua che pare immobile, ma che uno sguardo attento scopre fluente. Da quel ponte – celebrato in un mirabile affresco letterario – allungo la vista verso l’isola, sull’angolo destro rivedo il fumo di molto tempo addietro e le lacrime scendono. Non per gli antichi gas, compagna mia, per quello che ripenso: i colpi secchi che ignari ragazzi poco esperti di guerra subivano dagli uomini in plexiglas. I più infidi, vestiti in jeans con le barbe e le magliette a strisce, fingevano di stare con loro mentre li bersagliavano con un fuoco infinito. A decine, con armi d’ordinanza e non. C’è una lapide che parla dello strazio d’una giovane, lei non passava lì per caso, difendeva ciò che amava di più in un Paese ingrato. Finì, come sai, con la faccia a terra, in un’immagine orribile che mi riporta ancora più lontano. A un precedente giorno di primavera diventato caldissimo.
Nessuno poteva fermare la rabbia della marea umana che travolgeva ogni cosa: uomini in plexiglas a brandelli, insegne stradali, saracinesche, porte blindate, sotto un’aria e un fumo nerissimi. Eravamo stanchi di essere stanchi, di pagare con la vita, volevamo riprenderci un’esistenza che ci toglievano col piombo. Non volevamo asfissiarci in un mondo dal pensiero unico e lo gridavamo. Perciò ci mandavano addosso i lugubri assassini, per tagliarci la voce e la gola. E quando non bastava arrivavano quelli dell’ordine-terrore come nel mattino che schiacciarono la testa a un uomo, lasciando sangue e materia sotto le ruote del camion. Non voglio impressionare, parlo di ciò che non si cancellerà mai davanti agli occhi miei.
Non cercavamo la morte, Alina, tu lo sai. Ma in città era tornato Cane Nero, pronto a sbranare i diversi come noi. Perché cambiare sembrava una colpa e ogni cosa doveva restare com’era, anzi inseguire il passato più oscuro.
(dal romanzo Hépou moi)

Nessun commento:

Posta un commento