La misura di cui si parla sempre più spesso viene considerata di sinistra. Ma in realtà rappresenta la vittoria culturale del neoliberismo e come tale andrebbe affrontata.
L'Espresso Raoul Kirchmayr
La discussione pubblica vede da qual che tempo circolare un’espressione che compare con maggiore frequenza che in passato, anche in virtù di un dibattito politico in corso. L’espressione è “reddito di cittadinanza”.Ne sentii parlare per la prima volta una ventina d’anni fa, a Bruxelles, dove conobbi il filosofo Jean-Marc Ferry, che aveva dato alle stampe un volumetto dedicato appunto alla “allocation universelle”. Di globalizzazione ancora non si parlava, perlomeno non nei termini che si sarebbero imposti di lì a poco, aprendo un dibattito che, sebbene scemato d’intensità nell’attuale fase di crisi, è lungi dall’essere esaurito. In quel momento i principali temi politici riguardavano soprattutto la costruzione europea dopo Maastricht e la prospettiva della moneta unica. Mi resi conto che, seppure limitato ai circuiti dell’accademia e ad alcuni ambienti politici, fuori dall’Italia esisteva un dibattito filosofico e culturale di cui da noi non arrivava l’eco.
Il reddito di cittadinanza mi parve un interessante concetto-limite con cui si poteva mettere alla prova l’effettiva capacità d’inclusione della democrazia: il nesso tra la cittadinanza e una base economica garantita mi sembrava una forma di protezione sociale capace di mettere al riparo dalle incertezze di quella che, di lì a poco, sarebbe stata chiamata “società del rischio”.
Ciò che mi sfuggiva era il nesso tra l’orientamento liberaldemocratico di Ferry, allievo di Habermas, e il contesto storico-politico più ampio in cui quelle tesi cominciavano a essere proposte.
Non lo sapevo, ma Ferry non aveva presentato nulla di particolarmente nuovo né tantomeno di rivoluzionario. Semplicemente, aveva un po’ anticipato i tempi rispetto ai processi già avviati di riconfigurazione dello spazio economico e politico europeo.
Infatti, quando in quegli anni si discuteva di reddito di cittadinanza, nessun accenno veniva ancora fatto alla povertà. Al contrario, la prospettiva assunta era quella delle eguali condizioni di partenza per ciascuno (ecco, dunque come veniva intesa l’idea di inclusione democratica, cioè nella forma delle pari opportunità). Di povertà non si parlava semplicemente perché la correlazione non era posta.
L’idea del reddito appariva dunque come progressista, democratica ed inclusiva. Presentava un unico limite pratico, seppure sostanziale, che la relegava nel territorio dell’utopia politica, soprattutto in anni di dichiarata vocazione pragmatica del discorso politico: gli alti costi di realizzazione. A parità di welfare, le risorse economiche pubbliche non sarebbero state sufficienti per coprire le esigenze di tutti, si diceva.
Ecco perché pareva esserci un salto incolmabile tra l’elaborazione teorica e la sua concretizzazione. Insomma, l’idea poteva anche essere condivisibile ma la sua realizzazione avrebbe richiesto delle risorse che non erano nella disponibilità degli stati.
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Oggi possiamo riconoscere che omettere il nesso con la povertà non era stata un’operazione casuale. Una delle scoperte più importanti compiute dalle scienze dell’informazione e dalla teoria della comunicazione del Novecento è consistita nel riconoscere la decisiva funzione che ha la cornice (frame) nella produzione del senso. Non c’è senso senza cornice, poiché quest’ultima permette di collocare una proposizione all’interno del contesto in cui è prodotta. Per converso, una delle tecniche impiegate per impedire che si possa cogliere una correlazione significativa sotto il profilo cognitivo consiste nel tenere fuori dal frame di riferimento uno o più elementi che, se inclusi, potrebbero mutare il senso del discorso. Nel nostro caso, il nesso che non figurava nei discorsi - e dunque non poteva avere senso - era quello tra il reddito di cittadinanza e la povertà.
Questo nesso è cominciato a comparire dopo la crisi del 2008. Se invece si fa comparire nel discorso il termine della povertà, il senso del reddito di cittadinanza muta: non si rivela più tanto un progetto d’inclusione (dunque un provvedimento di ampliamento dei diritti democratici materiali) quanto un intervento-tampone per limitare la sofferenza dei ceti più attaccati dalla crisi. Ecco perché la crisi ha comportato uno spostamento d’asse interessante nella produzione discorsiva pubblica in merito al reddito di cittadinanza, attribuendogli un carattere non più utopico, ma addirittura facendolo entrare, da qualche anno a questa parte e con denominazioni diverse, nell’agenda politica nazionale di movimenti e partiti.
Ricostituendo il nesso povertà-reddito di cittadinanza, quale operazione è stata condotta? In primo luogo, per farlo diventare significativo occorre metterne in ombra un altro, cioè quello relativo al rapporto tra democrazia e lavoro, che innerva il dettato della nostra Costituzione.
In breve, il reddito di cittadinanza diventa il sostituto “cosmetico” del diritto al lavoro. In secondo luogo, si afferma che, stanti i vincoli di spesa pubblica, il reddito di cittadinanza non può essere introdotto se non come provvedimento d’emergenza, e dunque temporaneo.
Per evitare che gli individui lo percepiscano come un diritto universale, quindi svincolato dalla contingenza del momento - leggi: la congiuntura economica - devono essere disciplinati attraverso un discorso di natura morale che si concreta in un obbligo al lavoro sottoretribuito. Il senso di questa incorniciatura è chiaro: al povero, che è tale perché escluso dal mercato del lavoro, può essere riconosciuto un diritto a reddito sussidiato solo se si piega a quella logica economica che ha fatto di lui ciò che è, cioè un povero. In questo circolo vizioso, il sostegno pubblico viene vincolato a una pedagogia moralizzatrice, alimentata dalla circolazione a senso unico di opinioni che consolidano, nella percezione collettiva, l’idea secondo la quale la povertà è una colpa.
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La natura progressiva e democratica del reddito di cittadinanza si rivela così un tragico equivoco. Costituendo una formidabile accoppiata con la tanto desiderata “meritocrazia”, questa ideologia della povertà instilla il falso convincimento che le diseguaglianze economiche e sociali siano qualcosa di naturale.
La conseguenza è che coloro che si sono trovati in stato di povertà (i cosiddetti “neo-poveri”) siano spinti a seguire il flusso mainstream delle opinioni, e inizino così a chiedere meno tasse, meno spesa pubblica, meno Welfare, meno controlli su imprese e capitali (leggi i “lacci e lacciuoli” visti sempre come negativi e dunque da levare), meno diritti per i lavoratori.
La povertà trova così un suo temibile supplemento psicologico consistente nell’aver interiorizzato il discorso del neoliberismo, confermato nella sua valenza morale e nella sua istanza pedagogica. L’espressione “reddito di cittadinanza” non è che l’ultimo anello aggiuntosi al dominante discorso del “meno”.
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