Sotto le apparenze di una commedia intergenerazionale, agile e ben oliata, Francesco Bruni mette in scena un romanzo di formazione serio e motivato che si regge interamente sulla questione, oggi più che mai vitale, della trasmissione del sapere.
|
Nel rapporto fra Alessandro (l’ottimo Andrea Carpenzano che a tratti evoca la vulnerabilità elegante di un Antonio Cifariello) e Giorgio (l’elegante e autoironico Giuliano Montaldo) s’intrecciano le ragioni di una generazione che non è riuscita a darsi come lascito e un’altra che non ha voluto, o potuto, cercare un dialogo restando inevitabilmente afasica e povera.
Le possibilità e i rischi di sbagliare un film come Tutto quello che vuoi erano numerose. Bastava montare in cattedra e scegliere la strada più facile. Invece Bruni, affidandosi alla straordinaria riottosità di Carpenzano, ispida eppure fragilissima, riesce a costruire un dialogo prima di tutto umano, sentimentale, che solo in ultima analisi si rivela come la più acuta e necessaria educazione politica. Il dentro della casa/caverna del poeta con il fuori di una città colta con affetto in alcuni dei suoi angoli più frequentati è il rapporto che unisce due mondi, lontani solo a uno sguardo distratto.
Con grande intelligenza formale, Bruni allarga progressivamente la circonferenza degli spostamenti del suo protagonista sino a trasformare il film in un on the road minore. Come dire: conoscere è soprattutto un uscire fuori da sé. E questo duplice movimento – Giorgio arenato nel suo sguardo e Alessandro perso in una assenza di mondo – si rivela uno dei punti di forza del film.
Conoscere è anche letteralmente muoversi verso l’altro. Poteva essere ricattatorio un film come Tutto quello che vuoi (ed è facilissimo giocarsi male la carta della terza età al cinema e in televisione) ma tutto risulta trattenuto e controllato. E non è un caso che quando la commozione giunge, si presenta pudica, necessaria ma discreta.
In questo viaggio a ritroso nel passato, che è anche un percorso per recuperare una lingua perduta che non è solo quella della memoria, ma una lingua in grado di riprendere a parlare con il territorio (e la commedia stessa funziona come una delle possibili lingue del nostro sentire “italiano”), ci si ritrova privi di armature e schermi per riattivare un dialogo, non facile, ma necessario.
Tutta la spedizione avventurosa, una piccola pattuglia Brancaleone sulle orme dei partigiani (la lingua liberata che rivela il territorio), si fa segno di un ritornare forte e giusto della storia. Gli scarponi custoditi in un bauletto dell’esercito americano sono proprio il segno di un dovere continuare a camminare. “Abbiamo fatto tutto questo per un paio di scarponi?” ringhia frustrato Riccardo (un Andrea Bruni che cova la minacciosità di Dane DeHaan). E alla fine del viaggio, quando Giorgio parte per sempre, l’incubo del lavoro (“Ma dove vai? Lì ti fanno lavorare!” urlava Capannelle a Gassman nel finale de I soliti ignoti) diventa il segno di una possibilità e di un riscatto. Non una resa, un inizio.
Pur nella semplicità del suo racconto (che comunque è decisamente difficile ottenere in forme così limpide), il film di Francesco Bruni è la dimostrazione che si possono continuare a realizzare delle commedie (all’italiana o meno) ma che al fondo ci deve essere sempre un tentativo di dialogo con il mondo. La sola cosa che può renderle necessarie.
Tutto quello che vuoi ha il merito di essere una commedia che funziona riattivando un dialogo non derivativo con una stagione mai dimenticata del nostro cinema.
(11 maggio 2017)
Nessun commento:
Posta un commento