Quali obiettivi e quali conseguenze ha prodotta la sistematica destrutturazione dei sistemi educativi, formativi e della ricerca nel nostro paese?
L’introduzione di Massimiliano Piccolo ha presentato il progetto di lavoro e analisi su questo terreno che verrà organizzato a partire dal convegno dal Centro “Alessandro Mazzone” che la Rete dei Comunisti ha costituito in omaggio e continuità con uno dei più lucidi intellettuali marxisti italiani. Ottima la partecipazione ai lavori, soprattutto per la presenza maggioritaria di giovani e studenti universitari. All’introduzione sono seguite numerose relazioni e interventi che hanno spaziato dalla situazione delle università (Vasapollo, Grandi, Tangocci, Maccarone) a quella della scuola (Allegra, Giustolisi) a quella della ricerca (Della Porta). Due contributi internazionali sono arrivati da Efrain Echevarria (università di Pinar del Rio, Cuba) e da Rosa Canadell (ex portavoce dell’Ustec, il sindacato di base degli insegnanti in Catalogna).
La discussione e l’analisi sono partite dall’alto della questione, sottolineando (Vasapollo) come “nella fase attuale di evoluzione del capitalismo, l’aspetto più rilevante di quel processo di mercificazione della vita sociale è precisamente quello che concerne la conoscenza”. Ciò non vuol dire solamente che la conoscenza, come prodotto materiale in forma di idee e pensieri, si è trasformata in un’attività umana suscettibile di esprimersi come merce – cosa che avviene da molto tempo, almeno da quando un uomo pagò per la prima volta affinché gli predicessero il futuro –, ma le forme che adotta il processo di produzione della conoscenza-formazione si strutturano sempre di più sotto forma di relazione mercantile. “Ed allora si può dire che la cultura sociale, ritenuta per molto tempo sinonimo di libertà, di diffusione della conoscenza e del sapere, sia diventata ormai il contrario”.
Ma l’altra questione rilevante sono proprio i criteri e i parametri con cui gli apparati della borghesia – dall’Ocse alla Confindustria, dall’Unione Europea al Miur – hanno cercato di omologare ad una visione mercantilista sia le valutazioni sulla qualità dell’insegnamento sia le competenze che gli studenti devono assumere dopo essere transitati e “omologati” dentro i sistemi educativi imposti dalle controriforme degli ultimi ventisei anni, a partire cioè dalla riforma Ruberti del 1990 nelle università.
Qual è infatti oggi il fine dell’apprendimento scolastico? Le vere finalità stanno alla base dei processi di riforma dei sistemi d’istruzione a livello mondiale (almeno a livello dei paesi OCSE). Finalità che in realtà non sono per nulla occultate, ma che, come sempre, non sono poste al centro del senso comune, perché vige sempre la strategia della distrazione di massa. Le finalità dell’apprendimento sono le competenze. In genere queste si misurano nei termini di “sa fare/non sa fare”. Non diversamente dal caso della nozione di apprendimento, il concetto di competenza è alquanto indefinito. Ne sono un esempio le prova Invalsi che ogni anno (dunque con un criterio del tutto a/scientifico) vengono propinate nelle scuole di ogni ordine e grado e che i prossini 4/5 e 12 maggio verranno nuovamente contestate con lo sciopero convocato dai sindacati di base (e purtroppo solo da loro). L’unica cosa certa che si possa dire del concetto di competenza è che esso non ha una radice pedagogica, ma si forma in ambito lavorativo. “Questa indeterminatezza del concetto di competenza non è però un deficit teorico, quanto una sua determinazione precisa: non si può esattamente stabilire esattamente cosa, come e in che tempi si deve “saper fare” qualcosa” ha detto nella sua relazione Antonio Allegra “Non si può perché ciò che si richiede al futuro lavoratore non è il raggiungimento di un obiettivo specifico, ancorché esterno, ma di essere “preparato” ad affrontare qualunque obiettivo pratico generico. Stiamo parlando della flessibilità applicata all’educazione”.
Gli studenti della Campagna Noi Restiamo, oggi attiva in diversi atenei italiani, hanno avanzato una disamina impietosa della situazione. Le opportunità lavorative per i laureati in Italia sono molto minori del resto d’Europa: a 3 anni dalla laurea solo il 50% lavora, contro l’80% della media europea. Per non parlare del sottoinquadramento lavorativo: un’indagine Bankitalia ha rilevato che nel periodo fra il 2009 e il 2011, il 25 per cento dei giovani fra i 25 e i 34 anni ha svolto mansioni che richiedevano bassa o nessuna qualifica. Ma se solo la metà dei laureati lavora a 3 anni dalla laurea, per i diplomati è pure peggio, visto che solo il 30 per cento di loro lavora a 3 anni dal diploma.
Il problema è che anche per chi vuole è sempre più difficile frequentare l’università. Come ricordato, la scure dell’austerità imposta dall’UE e implementata dai vari governi succedutesi negli ultimi anni si è abbattuta con particolare violenza sul sistema di formazione universitaria italiana. Nè la situazione è neutrale circa all’applicazione dei suoi effetti: è diseguale sia dal punto di vista geografico sia dal punto di vista di classe. Il crollo delle iscrizioni colpisce prima di tutto le università del meridione (delle 70.000 iscrizioni in meno fra 2014 e 2015, 45.000 vengono dal solo Sud Italia) e colpisce gli studenti provenienti da famiglie meno abbienti. Sono stati infatti in maggioranza ragazzi e le ragazze provenienti dagli istituti tecnici e professionali, che sono anche i ragazzi provenienti dalle famiglie con la condizione economica peggiora, a “fuggire” dall’Università. Una situazione che peraltro comincia già in precedenza, perché già la scelta delle superiori dipende dal ceto sociale: i figli di professionisti e al liceo, gli altri agli istituti tecnici e professionali.
Questa ritrovato selezione sociale diclasse nell’accesso all’università, non mette però al riparo i laureati dal convivere con il massimo di frustrazione tra aspettative maturate e la realtà che trovano a disposizione. Un quadro che incentiva quello che la Campagna Noi Restiamo definisce come il “furto dei cervelli” da parte delle economie europee più forti rispetto a quelle dei paesi Piigs. Un fenomeno che fa parlare di una nuova emigrazione di massa dall’Italia.
Tuttavia ci sono sostanziali differenze con le precedenti migrazioni. Per prima cosa, il più alto livello di scolarizzazione di chi parte: il 31% dei nuovi emigranti possiede una laurea[1], una percentuale estremamente maggiore rispetto ai casi precedenti. E’ importante notare che i laureati sono il 22.4% della popolazione italiana, quindi si trovano sovra-rappresentati tra gli emigranti. Altra differenza è che adessa si emigra anche dalle città del norditalia e non solo da quelle meridionali verso Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Francia, Benelux.
Impietosa anche la radiografia sul pessimo stato della ricerca in Italia presentato da Cinzia Della Porta (del Cnr ma anche sindacalista dell’Usb) che ha anche resocontato di quanto avvenuto il giorni prima davanti al Cnr di Pisa con le cariche della polizia posta a protezione di Renzi.
Dare un resoconto di tutte le relazioni e interventi si rivela niente affatto facile vista la ricchezza e anche la complessità dei contenuti. La soluzione adottata è la decisione di pubblicare tutti i contributi sulla rivista periodica Contropiano di prossima uscita e renderli disponibili online sul sito della Rete dei Comunisti nella sezione dedicata ad Alessandro Mazzone. Ma la questione della trasmissione della ideologia dominante tramite i sistemi educativi e di ricerca è un tema sempre più centrale ed interessante che va oltre i soli insegnanti, studenti e ricercatori. Lo confermano anche le centinaia di visualizzazioni che hanno seguito la diretta streaming del convegno di Bologna sia sul nostro giornale che su Radio Città Aperta.
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