lunedì 2 maggio 2016

Francia in lotta continua. Mieux la nuit debout que le jour à genoux. Meglio in piedi di notte che in ginocchio di giorno.

nuitdebout

“Paris, debout, Souléve-toi!” grida un taxista sporgendosi dal finestrino. Place de la République, ora Place de la Commune, è come ogni sera gremita di persone: la maggior parte partecipa all’assemblea generale, altre invece seguono percorsi tematici nei banchetti allestiti ai lati della piazza.


Molto è stato detto dell’inizio del movimento, delle sue caratteristiche e delle sue problematiche: ci limiteremo quindi ad alcune impressioni e riflessioni suscitate da alcune giornate trascorse nella capitale francese, partecipando alle iniziative svolte.
Durante l’assemblea generale tenuta la sera in piazza, ciò che più colpisce della maggior parte degli interventi è la capacità di trasferire dal piano personale a quello collettivo l’esperienza personale di iper-sfruttamento, precarizzazione e degrado sociale. Un’affermazione ricorrente consiste nel rifiuto della “Loi travail et son monde”. Proprio questo secondo inciso sta a significare una presa di consapevolezza inedita; se il jobs act francese è stato il primo elemento che ha fatto da catalizzatore della protesta, questa si è poi estesa ed ha portato una presa di coscienza molto più vasta: la loi travail non è percepita come un errore isolato, una singola legge da rifiutare, ma come un’espressione estremamente aggressiva del mondo dominante, che deve essere rigettato nella sua integralità.
Dal rifiuto della Loi travail si è passati al rifiuto del quadro di riferimento di tale legge, ossia del piano neoliberale che costituisce “la nouvelle raison du monde”. Questo collegamento analitico, questa capacità di collocare la legge all’interno di un sistema di dominio di classe permette un’espansione e propagazione della lotta che va di pari passo con la presa di coscienza rispetto alle cause della situazione contemporanea. Inoltre, essa permette una ricomposizione di classe estremamente difficile e problematica nelle società occidentali, laddove lo sviluppo e le trasformazioni del processo produttivo hanno destrutturato la composizione di classe e ne hanno reso molto più difficile l’aggregazione.
Un altro tema collegato al precedente ed assolutamente centrale nel dibattito riguarda proprio la convergenza delle lotte. Il tema della convergenza ritorna molto di frequente, e si pone come una necessità primaria. Innanzitutto, poiché è estremamente sentita la necessità di massificazione del movimento. Tale massificazione, per realizzarsi, necessita di una convergenza dei vari momenti di conflitto che, se rimangono isolati, non riescono ad acquisire rilevanza o, quantomeno, non possono che portare a vittorie parziali, sempre racchiuse in una prospettiva solamente rivendicativa. La percezione del collegamento tra le varie offensive neoliberali, può invece portare, pur mantenendo le specificità delle pratiche, ad una convergenza delle lotte, realizzata sulla base dell’appartenenza di classe. In altre parole, convergenza delle lotte significa soprattutto ricomposizione di classe.
La questione si pone inoltre nel rapporto con le banlieues (al plurale, perché esse hanno caratteri e specificità che non permettono di etichettarle in un’unica categoria), che rimane la problematica più importante complicata. Il tema è estremamente complesso e delicato: da un lato vi è consapevolezza della necessità del coinvolgimento delle banlieues, la cui segregazione non è solo economica, ma anche e soprattutto razziale. Tale coinvolgimento risulta però estremamente difficile, sia perché le problematiche delle banlieues sono differenti rispetto a quelle della componente di movimento che proviene dal centro della metropoli, sia perché non si deve cadere nell’errore di porsi rispetto alle banlieues in una modalità neocoloniale, dando direttive sul che fare ed imponendo le specificità di una determinata componente della classe.
Un terzo tema molto discusso è quello della violenza. Sin dalle prime manifestazioni ed azioni contro la loi travail la repressione poliziesca è stata estremamente aggressiva; al tempo stesso si è vista una reazione estremamente convinta e determinata da parte di un grande numero di manifestanti, soprattutto i più giovani. La determinazione e l’ampia partecipazione agli scontri, anche da parte di chi non è militante, hanno portato il governo stesso ad esprimere preoccupazione in relazione all’aumento dei partecipanti ad azioni violente.
Ciò che stupisce è che il movimento nella sua globalità, anche quelle componenti che non attuano pratiche violente, ha decostruito e respinto i tentativi del governo e della stampa mainstream di distinguere tra una parte dei manifestanti pacifici ed i cosiddetti casseurs, tentando di imputare solo a questi le violenze e provocare una scissione tra i manifestanti.
Come emerge da molti interventi sia durante l’assemblea generale, sia da un dibattito dal titolo “où est la violence?”, la violenza viene percepita dalla maggior parte del movimento come uno strumento, la cui approvazione o meno non ha a che vedere con questioni etico/morali, ma con l’avanzata del movimento che essa permette, senza tuttavia ricadere in visioni estetizzanti che rinvigoriscono l’immaginario, ma non hanno ricadute sul rapporto di forza. Come fa notare Stathis Kouvelakis, l’essere contro la violenza a priori non ha senso; tale posizione infatti, facendo della violenza un magma unitario ed accettando la narrazione mainstream, non permette di comprendere cosa sia la violenza, chi la utilizzi e a quali fini (tralasciando la contraddittorietà tra una posizione assolutamente non-violenta e la condivisione delle lotte di liberazione del passato).
Da queste riflessioni deriva peraltro la consapevolezza della necessità di costruire un rapporto di forza rispetto al potere. La chiusura di qualunque spazio riformista, e dunque di possibilità rivendicative, è stata infatti determinata dagli sviluppi capitalistici degli ultimi trenta anni e dalla competizione globale. Darsi come orizzonte velleità riformistico-concertatrici è dunque privo di alcun senso, perché è il potere stesso che ne ha chiuso qualunque possibilità. Da qui deriva altresì la consapevole necessità di unire, alle parole, le azioni, ossia che vi sia un’unità tra la teoria e le pratiche. Il fatto stesso che le discussioni nella piazza siano tollerate, mentre sia impedita alcuna forma di protesta attiva (come ha detto lo stesso Hollande, la nuit debout non può più essere tollerata nel momento in cui i manifestanti passano all’azione), rende chiaro che, se ci si vuole porre in contrapposizione col sistema dominante, occorre praticare il conflitto.
Come si legge in un volantino “plus les partisans des modes d’action pacifistes assumes de se coordonner, de s’organiser avec les éternels bad guys de service, plus la lutte s’ouvre à l’affirmation, plus le terrain d’entente se matérialise, plus les gouvernements flippent. Le temps qu’on passe à devoir se convaincre mutuellement de la nécessité de l’une ou l’autre manière de faire, ce temps est en pure perte. La question n’est pas d’être ou ne pas être violent. La question est d’être offensif, ou inoffensif.”
Gherardo Leone

Nessun commento:

Posta un commento