giovedì 19 maggio 2016

La nuova era monopolista.

 
 
La prima, promossa da Adam Smith e dagli economisti liberali del diciannovesimo secolo, poneva l'accento sui mercati concorrenziali. L'altra, conscia di quanto la concezione liberalista di Smith conduca a una rapida concentrazione della ricchezza e dei salari nelle mani di pochi, ha come punto di partenza la tendenza senza restrizioni che hanno i mercati per raggiungere una situazione di monopolio. È necessario conoscere e capire entrambe poiché la nostra visione delle politiche attuate dal governo e delle disuguaglianze esistenti dipende dalla scuola di pensiero che secondo ciascuno è in grado di descrivere al meglio la realtà.
Per i liberali del diciannovesimo secolo e i loro ultimi accoliti, poiché i mercati sono competitivi, i rendimenti che ricevono i cittadini sono conseguenti ai loro contributi sociali, al loro "prodotto marginale", per dirlo in termini economici. I capitalisti vengono premiati per quanto riescono a risparmiare, anziché consumare, per la loro astinenza, tanto per parafrasare Nassau Senio, uno dei miei predecessori presso la cattedra Drummond di Economia Politica dell'Università di Oxford. Allora le differenze salariali erano imputabili al possedimento di "asset" (capitale umano e finanziario). Gli studiosi delle disuguaglianze, dunque, si sono concentrati sui fattori determinanti la distribuzione degli asset, compresi il passaggio di questi da una generazione a un'altra.
La seconda scuola di pensiero ha come punto di partenza il "potere", compresa la capacità di esercitare il controllo monopolistico o, nel marcato del lavoro, di esercitare autorità sui lavoratori. Gli studiosi di quest'area concentrano la loro attenzione sui fattori che conferiscono il potere, su come esso viene mantenuto e consolidato e sulle altre caratteristiche che potrebbero impedire ai mercati di essere competitivi. Un esempio cruciale è rappresentato dello sfruttamento che deriva delle asimmetrie di informazione.

Poiché la disuguaglianza è aumentata e poiché aumentano le preoccupazioni nei confronti delle disparità, la scuola della concorrenza, concependo il rendimento individuale in termini di prodotto marginale, è diventata sempre più incapace di spiegare il funzionamento dell'economia. In Occidente, nell'era successiva alla seconda guerra mondiale, ha dominato la scuola di pensiero liberale. Tuttavia, poiché la disuguaglianza è aumentata e poiché aumentano le preoccupazioni nei confronti delle disparità, la scuola della concorrenza, concependo il rendimento individuale in termini di prodotto marginale, è diventata sempre più incapace di spiegare il funzionamento dell'economia. È questo il motivo dietro l'ascesa della seconda scuola di pensiero. Dopo tutto, i cospicui incentivi pagati dai direttori esecutivi dopo aver portato le loro aziende alla rovina e un'economia sull'orlo di un collasso sono elementi difficilmente riconciliabili con il credo secondo cui i salari dei cittadini hanno poco a che vedere con i loro contributi sociali. È chiaro che storicamente, l'oppressione dei grandi gruppi, come gli schiavi, le donne e le minoranze di ogni tipo, sono gli esempi lampanti del fatto che le disuguaglianze sono il risultato di un rapporto di potere e non di ritorni marginali.
Nell'economia odierna esistono diversi settori che non possono essere letti attraverso le lenti della concorrenza, tra questi ci sono le telecomunicazioni, il settore della tv via cavo, il campo digitale dai social media e internet, le assicurazioni, l'industria farmaceutica e il settore agroalimentare, tanto per citarne alcuni. In questi settori, esiste un tipo di concorrenza, una concorrenza oligopolista ma non si tratta della concorrenza "pura" dei testi accademici. Alcuni settori sono definiti "price taking" e ciò significa che le aziende sono così piccole che non hanno la possibilità di influire sul prezzo di un bene o un servizio sul mercato. Il settore agricolo ne costituisce l'esempio più evidente anche se l'intervento del governo in questo settore è massiccio e i prezzi non sono determinati principalmente dalle forze del mercato.
I mercati odierni sono caratterizzati della persistenza di elevati profitti di monopolio.
Il Consiglio dei Consulenti Economici del Presidente statunitense Barack Obama, guidato da Jason Furman, ha cercato di quantificare il calibro dell'aumento della concentrazione di mercato e alcune delle conseguenze di questo fenomeno. Stando a quanto hanno affermato questi consulenti, in molti settori, la metrica di valutazione ha registrato aumenti grandi, e in alcuni casi, drammatici delle concentrazioni di mercato. Per esempio, la percentuale di partecipazione nel mercato dei depositi delle dieci banche principali ha registrato un aumento dal venti al cinquanta percento in trent'anni, dal 1980 al 2010.
Alcuni aumenti del potere di mercato sono il risultato dei cambiamenti della struttura economica e della tecnologia: prendiamo come esempio le economie di rete e la crescita dei settori dei servizi a livello locale. Alcune imprese, Microsoft e le aziende farmaceutiche rappresentano dei buoni esempi, hanno imparato a erigere e mantenere barriere all'entrata, spesso supportate da forze politiche conservatrici che giustificano l'imposizione lassista di normative anti-monopoliste e l'incapacità di limitare il potere di mercato in quei campi considerati "naturalmente" competitivi. In alcuni casi, dietro di questo aumento si celano illeciti e il tentativo di influenzare il potere di mercato attraverso il processo politico: per esempio, le banche principali esercitano pressioni sul Congresso statunitense per ottenere la modifica o l'abrogazione della normativa che separa il settore bancario commerciale dalle altre aree della finanza.
I dati parlano chiaro circa le conseguenze: la disuguaglianza sta aumentando a ogni livello, non solo tra i cittadini ma anche tra le aziende. Il rapporto del Consiglio dei Consulenti Economici ha evidenziato che "le imprese situate nel novantesimo percentile concepiscono i rendimenti sugli investimenti in capitale superiori di cinque volte la mediana. Un quarto di secolo fa, questo rapporto rasentava due volte la mediana".
La battaglia contro il potere radicato non è solo una battaglia per la democrazia, si tratta anche di una battaglia per l'efficienza e la prosperità condivisa. Joseph Schumpeter, uno di maggiori economisti del ventunesimo secolo ha affermato che non dovremmo preoccuparci del potere monopolista: i monopoli non sono che temporanei. Ci sarebbe una forte concorrenza per il mercato e questo rimpiazzerebbe la concorrenza all'interno del mercato, mantenendo i prezzi concorrenziali.
In un mio lavoro teorico elaborato diverso tempo fa, ho evidenziato i difetti dell'analisi di Schumpeter e ora i dati empirici me ne danno una forte conferma. I mercati odierni sono caratterizzati dalla persistenza di elevati profitti di monopolio. Le implicazioni di tale fenomeno sono profonde. Molte ipotesi sulle economie di mercato sono basate sull'accettazione del modello competitivo, con ritorni marginali commisurati ai contributi sociali. Questa concezione dell'economia ha fatto sorgere dubbi sul ruolo dei governi: se i mercati fossero davvero fondamentalmente efficienti ed equi, non ci sarebbe molto da fare per migliorarli, neanche per il miglior governo del mondo. Tuttavia, i mercati si fondano sullo sfruttamento e di conseguenza la logica che giustifica il laissez-faire scompare. Questo spiega perché la battaglia contro i poteri radicati non è solo una battaglia per la democrazia, ma anche una battaglia per l'efficienza e per la prosperità condivisa.

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