contropiano marco santopadre
E’ l’avvocato musulmano e di origini pakistane
Sadiq Khan il nuovo sindaco di Londra. Il laburista ha sconfitto
nettamente il suo principale sfidante – 44.2% a 35% al primo turno, 57 a
43 nel secondo – il candidato conservatore Zac Goldsmith, succedendo
così a Boris Johnson – definito il Trump britannico, astro nascente dei
Tory e fautore della Brexit – alla guida della più popolosa metropoli
europea. Al terzo posto, ma a notevolissima distanza, si è piazzata Sian
Berry, giovane candidata dei Verdi, con il 5.8%.
Confermando i sondaggi della vigilia, l’avvocato di umili
origini – suo padre faceva l’autista di autobus – si è imposto
facilmente solleticando il voto anche di vasti settori della piccola e
media borghesia londinese che negli ultimi anni sono stati travolti
dalle politiche di austerity del governo statale e di quello locale.
Secondo gli analisti Khan ha pescato anche tra le classi medio-alte,
grazie al suo messaggio rassicurante e alle promesse di fornire
soluzioni pratiche ai problemi dei londinesi. Che non si sono sentiti
rappresentati questa volta dallo scialbo Zac Goldsmith, ebreo,
milionario, favorevole alla Brexit ed ex direttore della rivista
ambientalista-soft “The Ecologist”, ma rappresentante di una tradizione
‘old british’ che ormai nella enorme metropoli conta sempre meno.
Il
vincitore è un personaggio difficilmente etichettabile, con varie
sfaccettature che lo hanno evidentemente premiato: musulmano – è il
primo sindaco islamico di una grande città europea – cresciuto nelle
periferie a sud di Londra abitate da immigrati asiatici e caraibici ma
anche difensore dei diritti umani e fautore del matrimonio tra persone
dello stesso sesso. Europeista convinto e laburista assai moderato
(vicino ad Ed Milliband ed agli interessi della City), durante la
campagna elettorale si è impegnato a distinguersi da un leader del suo
partito – Jeremy Corbyn – ritenuto troppo radicale, e a liberarsi della
sua fama di nemico dei ricchi.
Sono state soprattutto le sue proposte sul tema della casa – la
maggiore delle tante piaghe londinesi – a fargli ottenere vasti e
trasversali consensi.
Al
centro del suo programma Khan ha inserito il progetto di costruire
parecchie decine di migliaia di nuovi alloggi popolari per tentare di
frenare la progressiva espulsione di centinaia di migliaia di londinesi
dalla città. Non solo quelle più povere ma anche molte famiglie della
piccola borghesia sono costrette sempre più spesso ad abbandonare la
metropoli per cercare affitti meno esosi anche a 200 km di distanza,
dovendo spesso comunque arrivare quotidianamente a Londra per lavorare o
studiare. Un tema molto sensibile visto che dall’epoca di Margaret
Thatcher e solo con brevi pause l’amministrazione di Londra non ha fatto
altro che vendere, a prezzi crescenti, il patrimonio pubblico,
contribuendo così a drogare un mercato della casa che subisce già gli
effetti di una tremenda speculazione (molti dei soldi tenuti al sicuro
nei paradisi fiscali, spiegano gli analisti, vengono investiti proprio
nel mattone a Londra facendo lievitare i prezzi). Con almeno 400 mila
persone in attesa di una casa popolare o di un alloggio ad affitto
calmierato la proposta di Khan non poteva non fare breccia insieme a
quella di concedere aiuti alle fasce più deboli della popolazione per
affrontare i crescenti costi del trasporto pubblico.
Ma la vittoria di Khan deve essere considerata più un
risultato personale che un segno dell’inizio della rimonta per un
Partito Laburista che al contrario esce con le ossa rotte dal voto
amministrativo di giovedì. Dai parlamenti nazionali della Scozia, del
Galles e del Nord Irlanda ad alcune importanti città dell’Inghilterra di
media grandezza dove si è votato – in tutto erano 124 i Comuni inglesi
chiamati al voto – il partito di Jeremy Corbyn ha preso una sonora
sveglia. Ovviamente la cocente sconfitta peserà su un già estremamente
precario Corbyn che, nonostante stia progressivamente moderando il suo
programma e rientrando nei ranghi, continua ad essere attaccato da
numerose correnti del Labour e dalla grande stampa.
E’
soprattutto il tracollo in Scozia a pesare, visto anche l’aumento
consistente dei consensi andati al partito conservatore oltre che la
netta affermazione del Partito Nazionale Scozzese. Se nel settembre del
2014 il referendum sul distacco della Scozia da Londra era finito male –
45 a 55 – lo Scottish National Party si è subito ripreso ed anzi ha
tratto nuova linfa ed è tornato alla carica. Aumentando notevolmente i
suoi iscritti, alle scorse elezioni statali aveva conquistato ben 56 dei
59 seggi spettanti alla Scozia nel parlamento di Westminster. Ha pagato
evidentemente la svolta moderata del partito con la sostituzione di
Alex Salmond con la rampante Nicola Sturgeon e il mantenimento di una
identità ‘laburista’ – che associa le rivendicazioni di indipendenza
alla conservazione del welfare – che ha sottratto sempre più consensi al
partito di Corbyn. Anche l’ascesa dei populisti di destra e
nazionalisti britannici (ovvero inglesi) dell’Ukip di Farage ha
trasformato lo Scottish National Party nel principale contraltare
progressista a nord del Vallo. Negli ultimi mesi però la moderazione
della linea del partito e una posizione filo Unione Europea troppo
acritica hanno provocato anche l’abbandono di alcuni leader locali e di
militanti che hanno preferito ingrossare le fila di un arcipelago di
gruppi e soggettività indipendentiste di sinistra, pacifiste ed
ecologiste che però non sono riuscite per l’ennesima volta ad ottenere
apprezzabili risultati elettorali.
I nazionalisti si sono confermati così forza egemone nel voto
di giovedì conquistando 63 dei 129 seggi a disposizione e il 46.5%, l’1%
in più; alla vigilia si sperava nel raggiungimento della maggioranza
assoluta che invece non c’è stato (anzi a causa della particolare legge
elettorale l’Snp ha perso 6 seggi anche se ha ottenuto un record di voti
assoluti e più dei conservatori e dei laburisti messi assieme),
obbligando la premier uscente Nicola Sturgeon a cercarsi degli alleati
per poter formare un governo.
Per i laburisti l’onta di piazzarsi solo in terza posizione in
quello che anni fa era un loro feudo. Crollati di nove punti fino al
22.6% e fermi a 24 seggi (ben 13 in meno) sono stati scavalcati
addirittura dai conservatori che si sono affermati soprattutto nelle
lowlands del sud della Scozia ma anche più a nord conquistando un
notevole 22% (+8%) e ben 31 seggi (+16). Buon risultato anche per i
Verdi che nonostante un magro 0.6% ottengono ben sei rappresentanti
all’assemblea di Holyrood, uno più dei Liberaldemocratici che pure hanno
conquistato il 7.8% dei consensi.
Per i laburisti di Corbyn si tratta del peggior risultato in
Scozia dalla Prima Guerra Mondiale… In Galles, altra storica roccaforte
di un centrosinistra che negli ultimi decenni ha svoltato sensibilmente a
destra abbandonando le classi popolari e i territori più depressi, è
andata un po’ meglio. Qui oltre che con i nazionalisti gallesi di
centrosinistra del Plaid Cymru, il Labour se l’è vista anche con i
populisti di destra dell’Ukip ottenendo alla fine 28 seggi, uno meno che
nella passata legislatura.
Con un risultato così basso in Scozia i laburisti, se anche
dovessero recuperare nel resto del Regno, si trovano la strada sbarrata
per conquistare il parlamento di Londra ed accedere al governo, e
difficilmente la conquista della capitale può essere considerato un
segnale di controtendenza. L’altro aspetto riguarda le già difficili
relazioni tra Scozia e Inghilterra. Se il 23 giugno nel referendum
convocato da David Cameron dovesse prevalere il sì all’uscita
dall’Unione Europea – per ora dato in vantaggio da molti sondaggi – lo
Scottish National Party, la cui linea è fondamentalmente europeista,
sarebbe legittimato a chiedere un nuovo referendum per l’indipendenza. E
questa volta l’asticella del 50%, mancata di alcuni punti percentuali
nel 2014, potrebbe essere ampiamente superata…
Marco Santopadre
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sabato 7 maggio 2016
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