I sentimenti antisistema sono il frutto di una crisi di fiducia verso le elezioni. Ma anche le proteste sono inutili, come feste in maschera. Parla il teorico della “società liquida”.
L'Espresso di Alessandro Gilioli
Zygmunt Bauman, il grande sociologo teorico della “società liquida”, di
recente ha riservato molte riflessioni a Internet, in particolare ai
social media accusati di creare l’illusione di una rete affettiva in
realtà inesistente. Parte quindi da questi temi la conversazione de
“l’Espresso” con Bauman (al Future Forum organizzato dalla Camera di
Commercio di Udine) per allargarsi però all’attualità politica, dai
cosiddetti “partiti antisistema” europei alle primarie americane.
Professor Bauman, la sua è una critica esistenzialista alla Rete?
«Internet rende possibili cose che prima erano impossibili.
Potenzialmente, dà a tutti un comodo accesso a una sterminata quantità
di informazioni: oggi abbiamo il mondo a portata di un dito. In più la
Rete permette a chiunque di pubblicare un suo pensiero senza chiedere il
permesso a nessuno: ciascuno è editore di se stesso, una cosa
impensabile fino a pochi anni fa. Ma tutto questo - la facilità, la
rapidità, la disintermediazione - porta con sé anche dei problemi. Ad
esempio, quando lei esce di casa e si trova per strada, in un bar o su
un autobus, interagisce volente o nolente con le persone più diverse,
quelle che le piacciono e quelle che non le piacciono, quelle che la
pensano come lei e quelle che la pensano in modo diverso: non può
evitare il contatto e la contaminazione, è esposto alla necessità di
affrontare la complessità del mondo. La complessità spesso non e
un’esperienza piacevole e costringe a uno sforzo. Internet è il
contrario: ti permette di non vedere e non incontrare chiunque sia
diverso da te. Ecco perché la Rete è allo stesso tempo una medicina
contro la solitudine - ci si sente connessi con il mondo - e un luogo di
“confortevole solitudine”, dove ciascuno è chiuso nel suo network da
cui può escludere chi è diverso ed eliminare tutto ciò che è meno
piacevole».
Ci sono però interi movimenti politici che sono nati dalla Rete o
si sono diffusi grazie a essa. Le primavere arabe, ad esempio, ma anche
Podemos in Spagna e il Movimento 5 Stelle in Italia...
«È una questione ricca di ambivalenze. In generale però le ricerche
sociali mostrano che la maggior parte delle persone usa Internet non per
aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati, per
costruire delle “comfort zone”. Un po’ come quei quartieri fuori città
circondati da cancelli, da guardie armate e da telecamere a circuito
chiuso, dove le persone vivono in una sorta di mondo immaginario, senza
controversie, senza conflitti, senza esporsi alle differenze. Poi,
certo, grazie alla Rete oggi puoi convincere le persone del tuo network
ad andare in piazza a manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma
l’incidenza sul reale di queste mobilitazioni nate nelle “comfort zone” è
un altro discorso. Lei ad esempio mi citava le primavere arabe: non mi
sembra che abbiano mai portato a un’estate».
Quindi secondo lei non c’è un collegamento tra la diffusione della Rete e la protesta antisistema?
«Certo che c’è, ma Internet non ne è la causa, ne è solo un veicolo. Le
cause dei partiti antisistema vanno cercate invece nella crisi di
fiducia verso la democrazia. E questa a sua volta deriva dal fatto che
viviamo in un pianeta globalizzato e con una grandissima
interdipendenza, ma gli strumenti che abbiamo a disposizione per gestire
questa nuova condizione sono quelli ereditati dai nostri nonni e propri
dello Stato nazionale: quando cioè una decisione presa in una capitale
aveva realizzazione nel territorio di quel Paese e non valeva cinque
centimetri più in là. Adesso invece l’interdipendenza è mondiale e gli
Stati nazionali sono incapaci di gestirla. Così oggi i governi sono
sotto una doppia pressione: da un lato devono rispondere agli elettori, i
quali pretendono che i politici realizzino ciò per cui li hanno votati;
dall’altra parte, la realtà globale interdipendente - i mercati, le
borse, la finanza e altri poteri mai eletti da nessuno - impediscono che
questi impegni vengano mantenuti. La crisi di fiducia nasce da questa
doppia pressione. Sentiamo tutti che ormai le democrazie non funzionano,
ma non sappiamo come aggiustarle o con che cosa rimpiazzarle».
Di qui nascono i movimenti antisistema?
«Direi piuttosto che da qui nascono i sentimenti
antisistema: attenzione a parlare di movimenti. Che sono un concetto
sociologico, mentre il sentimento è un concetto psicologico».
E questi sentimenti non si traducono in movimenti?
«Le persone si scambiano reazioni emotive sui social network e magari da
lì si organizzano per andare in piazza a protestare. Gridano tutti gli
stessi slogan, ma in realtà ciascuno ha interessi diversi e aspettative
deluse diverse. Poi si torna a casa contenti della fratellanza con gli
altri che si è creata in piazza, ma è una solidarietà falsa. Io la
chiamo “carnival solidarity” perché mi ricorda appunto quegli eventi in
cui per quattro o cinque giorni ci si mette la maschera, si canta e si
balla insieme, fuoriuscendo per un tempo definito dall’ordine delle
cose. Ecco, quelle proteste consentono l’esplosione collettiva di
problemi diversi e istanze individuali per un arco di tempo breve, come a
carnevale, ma la rabbia non si trasforma in un cambiamento condiviso».
Alcuni partiti che quanto meno incanalano questi sentimenti però esistono, seppur molto diversi tra loro. Cosa ne pensa?
«Si trovano anche loro di fronte alla crisi della democrazia di cui
abbiamo parlato. E a questa crisi rispondono chi provando a rafforzare
la democrazia, chi invece proponendo un “uomo forte” o qualche forma di
fondamentalismo politico-religioso. Del resto, se le democrazie non
riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi
qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che
sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere.
Un esempio recente è Donald Trump: oggi molti elettori americani
possono restare sedotti da chi attacca le istituzioni democratiche e ne
deride le rappresentanze. In più il miliardario Trump rappresenta il
trasferimento dei consensi dalla leadership al management: dove la
leadership è la capacita di fare le cose giuste, “to do right things”,
mentre il management è semplicemente la capacità di fare le cose bene,
“to do things right”. C’è una grande differenza».
Questo crollo di fiducia verso la democrazia spiega anche la
caratteristica “populista” che viene spesso attribuita ai movimenti
antisistema? E lei è d’accordo con questa definizione?
«“Populisti” in politica sono sempre gli altri, gli avversari. In realtà
ogni buon partito dovrebbe essere “populista”, cioè ascoltare cosa
pensano e cosa chiedono le persone ordinarie, i semplici cittadini.
Invece nel dibattito pubblico la parola viene usata in senso
dispregiativo. No, non sono preoccupato per la presunta minaccia del
“populismo”, ma per la possibile risposta autoritaria alla crisi della
democrazia».
Ma perché in alcuni Paesi la protesta antisistema si è declinata
a destra, come in Francia, e in altri a sinistra, come in Spagna?
«Perché siamo in un interregno, per citare Gramsci quando diceva che “se
il vecchio muore e il nuovo non nasce, in questo interregno si
verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Oggi i vecchi strumenti non
funzionano più ma quelli nuovi non ci sono ancora. Destra e sinistra
erano concetti pieni di significato fino a pochi decenni fa, ma lo sono
molto meno nella complessità policentrica del presente».
In che cosa consiste questa complessità policentrica?
«Dopo la caduta del Muro di Berlino, alcuni pensatori ipotizzarono la
fine della storia, la conclusione del conflitto politico all’interno di
un pacifico e definitivo sistema liberal-capitalistico. Si sbagliavano.
Il pianeta è molto più diviso e conflittuale di prima, pieno di scontri
locali più difficili da capire rispetto a quelli che opponevano tra loro
i due blocchi: pensi solo a quello che sta succedendo in Asia centrale,
dove arabi musulmani uccidono altri arabi musulmani. Ecco, questo
policentrismo complesso sta anche nella politica, dove si intrecciano
istanze scollegate tra loro, spesso difficili definire come “di destra” o
“di sinistra”. Prima il confronto era tra conservatori e progressisti,
tra chi voleva una società basata sul profitto e chi sulla cooperazione:
oggi i conflitti sono anche maggiori, ma meno semplici e meno netti».
Quindi anche quegli apparenti segnali di “ritorno alla sinistra”
come Jeremy Corbyn nel Regno Unito o Bernie Sanders negli Stati Uniti
sono solo effetti ottici?
«Sanders rappresenta un fenomeno nuovo e interessante, ma ci sono Paesi
in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo. In generale,
il problema contemporaneo della sinistra è la sua “constituency”, il suo
blocco elettorale. Una volta era la classe dei lavoratori, che la
sinistra difendeva. Oggi però, con i capitali che si muovono in fretta
da un paese all’altro, anche gli strumenti con cui prima si tutelavano
gli interessi delle classi più basse sono tra quelli che non funzionano
più, a iniziare dagli scioperi: se i lavoratori incrociano le braccia,
un secondo dopo il proprietario trasferisce la produzione in un Paese in
via di sviluppo dove trova gente contenta di guadagnare un paio di
dollari al giorno. In questo contesto, molti politici eredi della
sinistra sono spaventati dall’idea di irritare le Borse, i mercati, la
finanza, insomma i poteri che possono mandare gambe all’aria un Paese in
un giorno. Quindi parlano d’altro: ad esempio, si autodefinisce di
sinistra la parte politica favorevole ai matrimoni omosessuali. Bello,
giusto, d’accordo, ma cosa c’entra con il significato della sinistra?
Cosa c’entra con la giustizia sociale, che era la ragion d’essere della
sinistra? Poi sì, ci sono anche altri, come Sanders, che invece vogliono
rappresentare la protesta contro le leggi globali dei mercati e si
candidano per sfidarle. Ne ho molto rispetto, ma non vorrei che si
creassero troppe aspettative su quello che si può davvero fare con gli
strumenti non più funzionanti propri dell’era dell’interregno.
Altrimenti si rischia di restare delusi in fretta, come è avvenuto con
Tsipras in Grecia».
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lunedì 15 febbraio 2016
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