martedì 16 febbraio 2016

Siria, la guerra agli ospedali

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Nella guerra mondiale miniaturizzata in corso in Medio Oriente l’obiettivo continuano a essere i civili. Più se ne ammazzano meno problemi di gestione etnica, confessionale, amministrativa ci saranno in quella terra spettrale un tempo chiamata Siria, sbriciolata, un giorno via l’altro, col contributo di ciascun contendente. Si colpisce qualsiasi cosa attorno, ospedali compresi. Accuse incrociate: sono stati i russi, gli americani, i lealisti di Asad, i turchi filo ribelli sunniti. Poco importa. Il fronte risulta compatto su un contraddittorio obiettivo: azzerare per conservare. C’è chi vuol resistere per continuare ad esistere (Asad); chi (i ribelli moderati o fondamentalisti) spera di congelare l’enclave creata fino a invecchiare sul proprio mortaio. E poi le unità kurde (Ypg) intente a difendere e ampliare il Rojava, l’esercito turco ad attaccarle, i reparti Hezbollah a estendere il controllo nelle aree sul confine libanese dove vivono, i pasdaran iraniani a sostenerli, i miliziani jihadisti a contrastarli grazie ai petrodollari sauditi e qatarini. In questo caos sono fioriti i bombardamenti sulle strutture di Medécins sans frontières.  Ancora loro, ancora nel mirino dopo Afghanistan e Yemen, perché gli uomini che ridanno la vita non sono sopportati dai signori della guerra e morte.
Una morte generalizzata, senza scampo per chi è più fragile e ferito e giace in ospedale, per chi è debole poiché bambino oppure adulto a digiuno da settimane. Ecco gli obiettivi più esposti, seppure target diventano tutti su un fronte che spara nel mucchio, senza distinguere combattente o civile. Il nemico è chi ancora respira, fra i cumuli di macerie, al di là d’una collinetta, di un dirupo o d’un deserto che divide postazioni. Mentre colui che vola e domina può decidere a chi fare la pelle all’istante. Gli esperti bellici affermano come i caccia di Putin, accorsi in aiuto di Asad, utilizzino ancora bombe ‘stupide’. Le chiamano così, per distinguerle da quelle, egualmente assassine, ma intelligentissime atte a uccidere in maniera razionale. Sempre gli esperti chiosano che i ‘missili col cervello’ sanno dove colpire, dunque evitano di abbattere gente comune. Distinguo efficace, però approssimativo visto che i campioni delle giustificazioni a posteriori parlano spesso di “danni collaterali”. In Afghanistan, dove il tiro al bersaglio dai cieli è pratica statunitense, i dati del 2015 evidenziano un aumento dei “danni collaterali” complessivi, un po’ di morti in meno rispetto all’anno precedente (3.545) con una crescita di feriti (7.457).
Nel cimitero siriano il lugubre bollettino dei decessi violenti resta approssimativo, è la guerra stessa a impedirlo. 250.000 o 470.000 vittime, le cifre in circolazione, non cambiano l’essenza, seppure la seconda raddoppia un’ecatombe che non vede tregua né conclusione. Quando un conflitto è in corso l’industria bellica prospera più che in tempo di presunta pace. Le armi sono al lavoro, esplodono e si logorano, vanno sostituite e acquistate, perciò il business scivola meglio rispetto alle semplici manutenzioni da parata. Un conflitto è una manna per i signori delle bombe – produttori e consumatori – non bisogna archiviarlo in fretta. Anzi. Occorre usarlo, conservarlo, centellinarlo per farlo fruttare in termini di potere e d’immagine. Così da mostrare quanto si è capaci ad attaccare e a resistere, come quei pugili massacrati ma refrattari all’atterramento, che restano in piedi sul ring per incassare una borsa più corposa. Nel match siriano i contendenti non mettono in gioco la propria incolumità, ma quella d’un popolo, spettatore passivo, atterrito e sotterrato da scie sanguinolente. Gente impossibilitata a fuggire e destinata a crepare. Chi decide di tenerla in ostaggio, fra i calcoli della geopolitica del cinismo e l’ipocrisia delle diplomazie umanitarie a senso unico, ha la stessa responsabilità delle infamie dei signori della morte.

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