contropiano claudio conti
Abbiamo passato il punto di non ritorno? Vogliamo dire: il declino del “sistema paese” è già arrivato a sorpassare quel livello oltre cui non è più possibile riprendere in mano il proprio destino?
Abbiamo passato il punto di non ritorno? Vogliamo dire: il declino del “sistema paese” è già arrivato a sorpassare quel livello oltre cui non è più possibile riprendere in mano il proprio destino?
Noi speriamo di no, naturalmente. Ma non c'è un solo dato statistico che ci supporti minimamente in questo senso.
Prendiamo
i dati Istat, pubblicati oggi, sulla popolazione alla fine del 2015.
“Al 1° gennaio 2016 la popolazione in Italia è di 60 milioni 656 mila
residenti (-139 mila unità). Gli stranieri sono 5 milioni 54 mila e
rappresentano l'8,3% della popolazione totale (+39 mila unità). La
popolazione di cittadinanza italiana scende a 55,6 milioni, conseguendo
una perdita di 179 mila residenti”. L'”invasione” dei migranti non
esiste e non riesce neanche a compensare la diminuzione netta di
popolazione autoctona. Significa che l'Italia non è un traguardo
attraente neanche per chi viene dalla guerra o dalla fame. Con buona pace di Salvini e di tutti gli idioti che si nutrono a quella fonte di cazzate.
Buonismo sinistrese? Non è quello che
ci anima. Il secondo dato conferma - con numeri appena un po' inferiori
a quelli stimati tre mesi fa – una tendenza drammatica:
“I
morti sono stati 653 mila nel 2015 (+54 mila). Il tasso di mortalità,
pari al 10,7 per mille, è il più alto tra quelli misurati dal secondo
dopoguerra in poi. L'aumento di mortalità risulta concentrato nelle
classi di età molto anziane (75-95 anni). Il picco è in parte dovuto a
effetti strutturali connessi
all’invecchiamento e in parte al posticipo delle morti non avvenute nel
biennio 2013-2014, più favorevole per la sopravvivenza”.
All'Istat devono usare,
obbligatoriamente, un profilo scientifico e un linguaggio asettico. Ne
va della credibilità dell'istituto. Ma questo aumento della mortalità
tra gli anziani – già monitorato attentamente qualche mese fa
- “è il più alto tra quelli misurati dal secondo dopoguerra in poi”. La
traduzione è semplice: è dal 1943, mentre la guerra infuriava su questo
territorio, i soldati spediti su fronti lontani morivano come mosche e
la popolazione
rimasta sopravviveva tra resistenza, bombardamenti e rappresaglie, che
non si vedeva una moria simile. Effettivamente, i due anni precedenti
erano stati “più favorevoli per la sopravvivenza”.
Da
cosa dipenda questa mortalità esplosiva non è dato sapere, in attesa di
dati disaggregati. Ma è inevitabile pensare ai tagli alla sanità
pubblica, che hanno “persuaso”
molti anziani a curarsi di meno, saltare alcuni cicli di cure, evitare
una serie di analisi (dal ticket costoso)... col risultato di trovarsi
un “clima meno favorevole alla sopravvivenza”.
Bene, si potrebbe pensare
con un pelo di cinismo orripilante. Qualche vecchio in meno significa
più spazio per i giovani, afflitti da una disoccupazione al 40% e
bloccati in attesa di entrare stabilmente nel novero delle “forze di
lavoro”.
Purtroppo
non è che i giovani ci guadagnino alcunché, da una situazione del
genere. Dice infatti l'Istat: “Nel 2015 le nascite sono state 488 mila
(-15
mila), nuovo minimo storico dall’Unità d'Italia. Il 2015 è il quinto
anno consecutivo di riduzione della fecondità, giunta a 1,35 figli per
donna. L'età media delle madri al parto sale a 31,6 anni”.
Vi
serve ancora una traduzione? Eccola: Dal 1860 (anno di partenza
dell'Italia unitaria) non ci sono mai stati così pochi neonati. Da
allora ad oggi, però, la popolazione è addirittura raddopiiata, se non
qualcosa di più. In teoria, la natalità – anche considerando il drastico
cambiamento nelle abitudini sociali – dovrebbe essere ben oltre quei
livelli. Peccato che i giovani in età giusta per fare figli (tra i 20 e i
45 anni, diciamo)sono un tantinello penalizzati sul piano reddituale.
Sono precari, quando va bene, o addirittura disoccupati. Con salari
reali oscillanti, quando va bene, tra i 400 e i 1.000 euro al mese.
Anche volendo farlo, un figlio, non se lo possono permettere. Al
contrario di 150 anni fa, infatti, oggi farne crescere uno è quasi un lusso.
Dunque,
come sottolineerebbe subito in contestatissimo presidente dell'Inps,
Tito Boeri, c'è un “grande problema demografico”, perché gli over 65
“sono 13,4 milioni, il 22% del totale”. Il che porta la platea delle
“forze in età da lavoro”, tra i 15 ai 64 anni, a un altro minimo
storico, sia in totale (39 milioni, il 64,3% del totale), sia nella
parte che ancora non può essere considerata tale (fino a 14 anni di età: 8,3 milioni, il 13,7%).
Questo
è insomma un paese dove si muore molto di più e si nasce sempre di
meno. Vi serve un pallottoliere per vedere dove andrà a finire=
Ma
come sempre la notizia vera, il veleno statistico, sta nella coda:
“Diminuisce la speranza di vita alla nascita. Per gli uomini si attesta a
80,1 anni (da 80,3 del 2014), per le donne a 84,7
anni (da 85)”. L'avevano scritto poco tempo fa (vedi il link
precedente): le politiche di austerità hanno un codice genocida.
L'ordine che spira dalla Troika, realizzato con convinzione da tutti i
governi degli ultimi 25 anni, è sempre stato “dovete morire prima”. Il
che distrugge anche, di conseguenza, l'argomento principale con cui si
sostiene ancora la necessità di alzare l'età pensionabile per
raccordarla alle "aspettative di vita". Problemi seri, quando bisognerà
procedere al ricalcolo periodico...
Ora
l'Istat registra che l'ordine è stato eseguito. Scende la speranza di
vita, diminuisce la popolazione, fuggono i giovani. Se non ci sbrighiamo
a rovesciare il tavolo e “licenziare” integralmente l'attuale classe
dirigente (non solo “i politici”, ma soprattutto il funzionariato
“europeista”, l'imprenditoria nazionale, il personale lecchinesco che
popola i media di regime) rischiamo seriamente di trovarci al di là di
ogni possibile tentativo di “resurrezione”.
Il rapporto completo sugli indicatori demografici: Indicatori-demografici_2015.pdf701.58 KB
Nessun commento:
Posta un commento