dinamopress Giuliano Santoro
Esce il 4 febbraio l'ultimo film di Quentin Tarantino: un western atipico sui conflitti della storia nordamericana.
In una importante intervista comparsa l’estate scorsa sulle pagine del New York Magazine. Quentin Tarantino ha spiegato in che modo le rivolte nere di Baltimora e Ferguson abbiamo influenzato la scrittura di The Hateful Eight: «Era già nella sceneggiatura – dice Tarantino - Stava già nel materiale che avevamo già girato.Solo ci pare adesso di essere tempestivi. Ma non stiamo cercando di renderlo tempestivo. È tempestivo. Mi piace il fatto che la gente stia parlando e affronti il razzismo istituzionale, che esiste in questo paese e che è stato ignorato. Mi sento come se ci trovassimo di nuovo negli anni Sessanta, quando la gente dovette mostrare quanto fossero brutte le cose prima che potessero cambiare. Spero che stia accadendo di nuovo». Quentin era (è) ottimista. Ha partecipato ai cortei contro gli abusi polizieschi, cosa che gli è costata il boicottaggio del film da parte di alcuni sindacati delle forze dell’ordine. Perché Quentin ha il gusto della narrazione, per questo si è fatto prendere la mano e si è immaginato Barack Obama come uno dei suoi personaggi, il negro che sopporta stoicamente fino alla fine coltivando la vendetta e che prima di congedarsi fa giustizia. Purtroppo tutto ciò non è avvenuto. Ciò non toglie che i film di Tarantino restituiscano lo spirito del tempo e riescano, come pochi nella storia del cinema, a coniugarlo col grande spettacolo da osservare a bocca aperta.
A più riprese, Tarantino ha ricordato come anche in questo film ha voluto, mescolando i generi e maneggiandoli «come fanno con le palline i giocolieri», affrontare il tema rimosso della razza e dell’identità profonda dell’America. La storia inizia e finisce con l’immagine di un negro che parla con un bianco. Ha combattuto la guerra civile e che se ne va in giro a cacciare taglie con una lettera di Abramo Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù. Il mito fondativo della storia di un paese che nasce liberando i neri, diventa nel film una storiella grottesca, che fa commuovere anche i più insensibili ma che al tempo stesso fa ridere sguaiatamente dei creduloni che ci cascano. Quella lettera salva la vita e accompagna alla morte, al di là del vero e del falso.
Questa capacità di mescolare i generi e i linguaggi,di riproporre campionamenti e situazioni dentro una trama non solo inedita e scomoda, ma persino politica, in grado di cogliere nodi centrali del tempo presente e toccare corde attualissime, evocare scenari tutt’altro che autoreferenziali, ci dimostra che è possibile andare con il postmoderno oltre il postmoderno, prendere atto di alcune delle condizioni che lo hanno creato per uscire dalle narrazioni deboli e dalle esibizioni autistiche e la citazionismo fine a sé stesso. È possibile giocare col tempo e con la storia per battere il proprio tempo e scrivere la propria storia. Sembra dircelo Tarantino stesso quando (solo nella versione in pellicola e lingua originale) entra nella parte della voce narrante, saluta gli spettatori dopo la pausa di dodici minuti tra il primo e il secondo tempo e spiega vi spiega che anche nella storia sono passati «circa 15 minuti» dalla conclusione del capitolo precedente.
Tutto ruota attorno ai topos e alla forza del genere western. Parlando di Django Unchained, il film precedente della saga tarantiniana, ci occupavamo della forza politica del genere. Che con lo spaghetti western diventa ancora più dirompente. Prima di arrivare in città, a Red Rock, dove (forse) regna «la legge», bisogna passare per i nudi rapporti di forza, il tutti contro tutti, la violenza degli odiosi e senza possibilità di redenzione. Fin dall’inizio non sappiamo con certezza chi sia davvero ognuno degli Odiosi Otto: i tanti livelli della recitazione dentro la recitazione, il velo sui personaggi che fino alla fine interpretano un ruolo che non conosceremo davvero fino in fondo. Il boia è davvero un boia? E lo sceriffo? E chi è quel messicano che dice di avere in gestione la locanda di Minnie? Il formato di pellicola impiegato dai produttori di Lawrence D’Arabia per osservare i paesaggi e riconoscere un puntino a cavallo nel deserto qui non serve tanto a osservare la natura ostile e il paesaggio nemico. Serve a concentrarsi sui volti, sui dettagli della partita a scacchi (c’è anche una scacchiera vera) dentro la locanda. Tanto che la prima ora è fatta quasi soltanto di dialoghi, primi piani, costruzione dei personaggi. Un film che distende i tempi e ti porta a spasso in uno spazio angusto, pieno di storie e lati oscuri, con l’allegoria della storia e la geografia di un paese chiaramente enunciata da uno dei personaggi. Non si spara una pallottola, nei primi ottanta minuti di lento accumulo di tensioni striscianti, macchina a orologeria di sospetti reciproci, meccanismo perfetto di porte da inchiodare, pistole sotto i tavoli, macchine del caffè sul fuoco.
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