sabato 20 febbraio 2016

Caro professor Eco, mi hai insegnato il gusto di pensare.

Caro professore
ci siamo conosciuti quando avevo diciotto anni, matricola del primo anno di quel corso di Laurea di Scienze della Comunicazione a Bologna che tu avevi fortemente voluto, convinto com'eri che comunicare sia un'arte complicata, piena di trabocchetti e che ha bisogno, per non diventare truffa e malafede, di conoscenze, sapienza e lealtà.


L'Espresso Lara Crinò
umbertoAbbiamo cominciato quel corso di laurea in poche centinaia, e ci conoscevamo tutti, e tutti conoscevamo te. Non solo perché, al contrario dei cosiddetti 'baroni', amavi insegnare e non mancavi mai una lezione. Ma anche perché, essendo pochi, avevi finito per interessarti a noi in un modo un po' speciale. Schermato da Simona, la tua implacabile segretaria, ci ricevevi nello studio a Porta Maggiore, per discutere di tesi e tesine. Quando entravo e mi sedevo, un po' intimorita, davanti a te, mi guardavi con un mezzo sorriso che non era mai condiscendente, piuttosto divertito dalla mia giovinezza. Senza quella supponenza nei confronti dei giovani che poi mi è capitato di incontrare, come a tutti capita, in questa Italia che non li ama.
Sembravi guardare attraverso per cercare di intuire come funzionava la mia mente, come un bravissimo orologiaio per il quale nessun meccanismo sia troppo complesso. Con te ho dato il primo esame di Semiotica e mi sono laureata in Semiotica del Testo, con una tesi che cercava di capire come Internet, e il nuovo mondo digitale, avrebbe cambiato il nostro modo, non certo il nostro desiderio, di raccontare e farci raccontare storie.

Quando portavo le bozze del mio lavoro, già passate al vaglio da Giovanna Cosenza, me le restituivi con le note a margine: comparazioni tra il frammento della testualità digitale e il gusto per il frammento del Medioevo, l'epoca che più ti appassionava, aggiustamenti, punti di domanda. Poi mi sono laureata, ho cominciato a lavorare, sono diventata giornalista. Ogni tanto ci incontravamo a qualche festival, ci salutavamo. Una volta mi hai scritto in una mail “ti leggo sempre”, come potrebbe fare uno zio.
Se devo pensare ora a quello mi hai lasciato, penso innanzitutto al rispetto, un rispetto non formale ma giocoso per il mio essere soltanto una dei tuoi tantissimi allievi, che negli anni hanno fatto carriere, a loro volta insegnato, a loro volta portato con sé un po' della tua sapienza. Poi mi hai insegnato il dubbio: un dubbio sano per la ricostruzione dei fatti. Per la semiotica, nessun discorso è neutro: dietro ogni racconto della realtà c'è una mano, una prospettiva, e la presunzione di 'far parlare i fatti' con cui noi giornalisti spesso ci schermiamo, è solo un'illusione. Ma possiamo essere onesti, rifiutare la malafede, lasciarci arricchire dai punti di vista altrui e dalla cultura, che per te era un pozzo senza fondo di scoperte. Al quale tu, anche se sembravi sapere tutto e ricordare tutto, continuavi ad attingere con la curiosità di un ragazzino avido di sapere.
L'ultima volta che ti ho visto, durante una lectio magistralis al festival romano Libri Come, ti sei divertito a spiegare come nascano, soprattutto in rete, le 'bufale', le mistificazioni, i complotti. Del resto, il tema ti aveva sempre appassionato, dai tempi in cui, ne Il cimitero di Praga, smontavi il meccanismo con cui erano stati scritti i menzogneri Protocolli dei Savi di Sion.
Allora pensai che quello che avevo imparato su quel banco all'Università, era soprattutto una cosa: il gusto di pensare. Di non fermarsi a una lettura superficiale, di smontare il modo in cui un testo – uno scritto, un video, una dichiarazione, un discorso politico - è costruito per capirne le intenzioni. Per capire dove, nel bene e nel male, vuole portare il suo lettore. So che verrai ricordato, i tuoi scritti saranno letti ancora a lungo e altri sapranno intuire quel tuo stesso gusto. Addio professore, mi mancherai. Ti ho voluto bene

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