lunedì 27 aprile 2015

Paolo Ciofi: Coalizione sociale e alternativa politica



 www.paolociofi.it | Autore: Paolo Ciofi
A che punto è, e come si qualifica, la coalizione sociale promossa da Maurizio Landini? E in che relazione si pone con l’alternativa politica da costruire nel Paese? Un tema che i grandi quotidiani e il sistema comunicativo hanno declassato, ma che non per questo ha smesso di suscitare attenzione in diversi settori della società colpiti dalla crisi, nel mondo dell’associazionismo e in ambienti dei sindacati e dei partiti ancora sensibili alla condizione di diffuso malessere che investe masse crescenti di italiani.
Una ragione in più per seguire con attenzione il confronto che sul tema l’Associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars) ha promosso con la partecipazione di esponenti sindacali e politici di orientamento diverso, tra i quali lo stesso segretario della Fiom [1].
Non nascondiamoci dietro un dito. Sebbene non sia chiaramente definita nella conformazione e nelle prospettive, la proposta lanciata Landini porta in primo piano il tema politico centrale della nostra democrazia e della crisi che stiamo attraversando. Non solo perché i contenuti sindacali di cui parla il segretario della Fiom hanno di per sé un rilievo politico e addirittura costituzionale: pensiamo solo all’articolo 18 e al diritto al lavoro. Ma soprattutto perché questa iniziativa, anche al di là della volontà di chi la propone, chiama in causa, insieme al ruolo del sindacato, l’assetto complessivo del sistema politico, eroso da una crisi disgregante di credibilità e di capacità rappresentativa. E quindi riguarda il fondamento della nostra democrazia costituzionale.
Cerchiamo allora di fare chiarezza, cestinando nell’immondizia le solenni sciocchezze e anche gli intollerabili insulti, tra i quali spiccano quelli di due esperti cantastorie, Renzi e Jovanotti, che hanno definito un onesto e combattivo sindacalista, rispettivamente, un «soprammobile» e addirittura un «reazionario». Epiteto, questo, di cui già fu gratificato Cofferati, quando si opponeva a Veltroni e D’Alema che volevano ammorbidire lo Statuto dei lavoratori. Ma, al di là delle mirabolanti narrazioni del cantastorie di turno, che punta al potere personale portandoci a spasso sui prati fioriti di verità inventate e di narrazioni ideologiche, quel che vale è il principio di realtà.
Questo è l’unico metro di giudizio da adottare nel valutare la proposta della coalizione sociale. Non il principio di convenienza: per la propria famiglia di appartenenza, per il proprio gruppo o semplicemente per se medesimo, magari avendo come obiettivo massimo il prossimo turno elettorale. Dall’analisi critica della realtà ai contenuti della politica, e dai contenuti agli schieramenti. Tale è il percorso che la proposta della coalizione sociale ci costringe a seguire. Si tratta del rovesciamento delle pratiche adottate in campo politico e sovente anche in campo sociale da almeno vent’anni. Non è cosa da poco e non è facile. Ma indubbiamente si tratta di una novità di rilievo, da considerare con la massima attenzione.
Il dilemma di Landini. Lavoro/capitale, sindacato/partito
Tre sono in sostanza i problemi che Landini solleva con la sua proposta. In primo luogo, quello del giudizio sui contenuti del governo Renzi, che secondo il segretario della Fiom sono esplicitamente e ostentatamente orientati a vantaggio dell’impresa, cioè del capitale, contro gli interessi e le conquiste storiche dei lavoratori e delle lavoratrici, come dimostra tra l’altro il Jobs Act: non solo degli operai che la Fiom rappresenta, ma di tutti coloro che per vivere devono lavorare. Il conflitto frontale con i sindacati promosso dal capo del governo, e di un partito che si dichiara di sinistra e aderisce al socialismo europeo, è la controprova della degenerazione del sistema politico e di quella che, in un lampo di lucidità, Scalfari ha definito la fisionomia “classista” della politica renziana. Questo è esattamente il punto che Landini mette in luce, e da qui bisognerebbe muovere per trarne tutte le conseguenze. Scelta non semplice perché, cancellata nell’immaginario collettivo la divisione della società in classi, le parole stesse cambiano senso, per cui può definirsi socialista anche chi attacca frontalmente i lavoratori e i loro diritti.
Ma il governo Renzi, che secondo Landini «ha preso il programma della Confindustria e lo sta attuando», nella sua sfrontatezza ha fatto riemergere esplicitamente sul terreno politico il conflitto capitale-lavoro dopo anni di mascheramento ideologico e di latenza culturale, che hanno avvolto nel silenzio una spietata e pervasiva lotta di classe condotta su scala globale, di cui paghiamo come Paese prezzi salatissimi. Lo statista di Rignano non media e non è interclassista. E’ schierato senza se e senza ma dalla parte del capitale nella sua attuale conformazione finanziaria e tecnologica, e da questa postazione sta tentando una radicale modernizzazione dello sclerotico capitalismo nostrano, facendola pagare alle persone che devono vendere le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere, vale a dire alla maggioranza degli italiani.
È la certificazione, non voluta ma resa chiaramente visibile, che il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro, già spedito nel mondo delle ombre da Blair e Schröder, è morto e sepolto. Uno stato delle cose nel quale il segretario della Fiom, chiamando alla mobilitazione contro le politiche renziane, demistifica e smaschera precise scelte di classe, idest di destra, coperte con un linguaggio sedicente di sinistra. Compiendo con ciò anche un’operazione culturale temibile per Renzi e per il suo partito della nazione. E ponendo a tutti gli altri, forze politiche e sociali chiamate a porsi all’altezza della sfida, un ineludibile interrogativo: da che parte stai? Dalla parte del capitale, o dalla parte del lavoro? Con l’altrettanto ineludibile conseguenza: se stai dalla parte del lavoro la Costituzione è la tua stella polare, su cui orientare l’intero movimento.
Il secondo problema che solleva Landini è quello della rappresentanza sociale e del ruolo del sindacato in evidente difficoltà in questa fase storica, nella quale la crisi organica che attraversiamo, e che mette in discussione la vita stessa nel pianeta, richiederebbe un cambiamento di sistema. Da un lato, le potenzialità della rivoluzione scientifica e tecnologica e la diffusione del lavoro intellettuale e di ricerca (i colletti bianchi), dall’altro la precarietà nel lavoro e nella vita fino alla esclusione di intere generazioni, mentre avanzano i processi di disgregazione e si moltiplicano i conflitti tra poveri, impongono una riflessione di fondo sul modello di sindacato confederale. Che non può, per la sua stessa natura, abbandonare la contrattazione nazionale e anzi è obbligato a rafforzarla proiettandola a livello europeo, ma al tempo stesso deve aprirsi a nuove esperienze e a nuove istanze di coloro che dal lavoro vengono esclusi.
Sono comprensibili le difficoltà cui si accompagnano resistenze di apparati e di gruppi dirigenti consolidati, e tuttavia la Cgil, se non vuole essere travolta dai processi di modernizzazione del capitale in atto e/o essere trasformata in agenzia tecnica addetta alla gestione della forza-lavoro, ha bisogno di un grande sforzo di rinnovamento, di ridefinizione del suo ruolo e di riposizionamento nelle diverse articolazioni del lavoro e nella società. Mentre cerca rapporti con altre realtà sociali e di movimento per costruire una rete di solidarietà e di reciproco sostegno nei territori e su singoli contenuti (la scuola, la casa, la sanità, ecc.), proprio sul tema della Cgil sembra concentrarsi il segretario della Fiom quando sostiene che «bisogna riflettere sul fatto che la maggioranza di chi lavora non è iscritta e non si riconosce nelle strategie sindacali». Precisando che «la Fiom ha lanciato un macigno nello stagno della Cgil proponendo più democrazia e soprattutto più apertura alle persone che soffrono per le politiche liberiste sposate dal governo Renzi» (Intervista a Loris Campetti, inchiestaonline del 18 aprile 2015).
Non credo che la ricerca di convergenze fuori del sindacato sia in contrasto con la necessità di rinnovare dall’interno il sindacato. Una cosa non esclude l’altra, ma intanto è essenziale costruire in tempi sufficientemente rapidi un’agenda su cui possa convergere un ampio fronte di forze sociali in grado di contrastare le scelte del governo e le politiche restrittive della Ue. In pari tempo si tratta di verificare le ricadute politiche di tale processo, ben sapendo che se l’obiettivo strategico consiste nel ridare centralità al lavoro nell’economia e nella politica secondo il progetto che la Costituzione indica a grandi linee, è indispensabile ridefinire, accanto al modello di sindacato, anche il modello di impresa alla luce degli articoli 41-47 della nostra Carta fondamentale.
Qual è dunque il rapporto tra il sociale e il politico, questione dirimente da cui in realtà muove la proposta della coalizione sociale? Qui viene al pettine il nodo politico-istituzionale che il segretario della Fiom denuncia in modo molto netto, quello della separazione del sistema politico dal lavoro. In estrema sintesi si può dire che l’idea della coalizione sociale nasce dopo ripetute denunce dell’assenza della rappresentanza del lavoro nel Parlamento della Repubblica: un dato di fatto inoppugnabile, del quale anche Susanna Camusso sembra avere preso atto di recente, rendendolo ancora più evidente. Ma a questo vuoto politico la coalizione sociale non dà una soluzione, dal momento che non si propone la fondazione di un partito.
L’ipotesi esposta da Stefano Rodotà alla manifestazione del 28 marzo a piazza del Popolo è che attraverso la convergenza di forze sociali diverse si possa giungere a un accumulo di massa critica tale da far esplodere le contraddizioni del sistema politico, creando così le condizioni per far emergere una nuova formazione partitica. Non c’è dubbio che dal semplice assemblaggio di spezzoni delle forze politiche esistenti non può nascere nulla di significativo e di nuovo. Esperienze del passato, recenti e meno recenti, parlano chiaro. È però evidente che se la coalizione sociale riuscirà a fare massa critica su temi fondamentali del lavoro, delle condizioni di vita e della democrazia (dentro e fuori la fabbrica), il tema della rappresentanza politica si porrà con maggiore acutezza e in modo stringente. D’altra parte non può sfuggire a nessuno che se, contestualmente, sul terreno politico non si produrranno fatti nuovi, il rischio del riflusso e del fallimento della coalizione sociale diventerà concreto, e con esso anche quello di una crisi di fondo della Cgil.
Realtà sociale e alternativa, la latitanza della politica
Per costruire una soggettività politica che faccia asse sul lavoro, oltre che dell’impianto sociale, c’è bisogno di una visione strategica, che dall’Italia alzi lo sguardo verso l’Europa e il mondo: vale a dire di un programma fondamentale e, al tempo stesso, della capacità di dare risposte concrete ai problemi emergenti nella società dentro tale visione. Perciò, in un processo di superamento del sistema parlamentare oggi fondato su una specie di monoteismo classista tipico del neoliberismo che esclude il lavoro, non è indifferente la dislocazione di esponenti e di raggruppamenti politici che avvertono la drammaticità della condizione sociale e che antepongono agli schieramenti i contenuti della politica.
Di sicuro su questa linea non si colloca Pier Luigi Bersani, il quale sostiene che in Europa all’asse Thatcher-Blair, sul quale (con soddisfazione di Obama) sgambetta e strombazza lo statista di Rignano, lui preferisce quello Schröder-Merkel (intervista all’Avvenire del 26 febbraio 2015). Come a dire che se non è zuppa è pan bagnato, e come se la linea tedesca - analogamente a quella anglo-americana - non sia organica alla crisi che stiamo attraversando. Dov’è l’alternativa? In questo orizzonte semplicemente non esiste.
Diversa e più complessa è la posizione di Stefano Fassina (il manifesto dell’11 aprile 2015), secondo il quale «nella gabbia mercantilista dell’Eurozona alternative di governo non sono praticabili» ed «è impossibile la soggettività politica del lavoro», perché lo schema prevalente è quello dei conservatori al comando e dei socialisti «a rimorchio, spompati dopo tre decenni di subalternità al pensiero unico liberista». Con la variante italiana del partito unico della nazione «nell’involucro del Pd».
Accertata «la deriva centrista-plebiscitaria» del partito di Renzi - dove per centrista qui s’intende una collocazione mediana tra le due estreme di destra e di sinistra e non una dislocazione socialmente di destra in quanto espressione degli interessi classisti del capitale versus quelli del lavoro -, vale a dire di «un partito “pigliatutti”, fattore di inibizione della democrazia dell’alternanza e, al contempo, possibile evoluzione della “coalizione sociale”», Fassina ritiene che questa sia «condannata però, come sull’altro versante la destra anti-euro, a rimanere fuori dalle funzioni di governo e irreversibilmente attratta dalla protesta e dal populismo». A parte il dettaglio che in via prioritaria bisognerebbe contrastare a tutto campo il populismo autoritario di Renzi, la deriva populista e plebiscitaria di Landini è un’asserzione aprioristica che al di là del principio di realtà sconfina nel pre-giudizio ideologico, dando per concluso uno processo allo stato nascente.
In ogni caso non si diventa sinistra di governo se non si intercetta la protesta popolare, cercando di comprenderne le ragioni profonde. Se non si è in grado di comprendere e contrastare la solitudine di milioni di persone abbandonate a se stesse, senza lavoro e senza prospettive, che perdono la dignità e la volontà di lottare. Se non si è grado di costruire insieme a loro risposte immediate praticabili nella prospettiva di una società più avanzata e più giusta, invece di limitarsi a indicare di rimessa qualche aggiustamento ai margini dell’esistente. In questa condizione il campo è aperto a pulsioni nazionaliste e retrograde, e a pericolose spinte fascistiche.
È un nodo importante quello che individua Stefano Fassina quando afferma che «la sinistra per un’alternativa di governo deve avere un programma fondamentale orientato alla ridefinizione del rapporto con l’Unione europea». E che pertanto è ineludibile affrontare la contraddizione «tra l’ordine costituzionale dell’eurozona, retto dalla cultura della stabilità dei prezzi e dall’agenda di svalutazione del lavoro, e la nostra Costituzione […], orientata dal principio della democrazia fondata sul lavoro».
Si potrebbe dire anche così: come si costruisce un’Europa dei popoli e di lavoratori in grado di rovesciare le tendenze dominanti, imposte dal dominio dei mercati e del capitale finanziario?
Certo, è indispensabile predisporre un’altra agenda a livello europeo. Ma dovrebbe essere altrettanto certo che il momento nazionale non può essere bypassato, soprattutto da noi italiani, che con la Costituzione disponiamo di una tavola di valori da proporre in Europa. La sinistra non ha avvenire in Europa se non pianta le radici in Italia e in ogni Paese; se non conquista, qui e ora, credibilità e riconoscibilità di fronte alla tempesta della crisi e al dilagare della corruzione e della criminalità, a intollerabili ingiustizie; se non sta, qui e ora, con comportamenti coerenti, dalla parte del lavoro: di tutti coloro, uomini e donne, giovani e anziani, italiani e stranieri, che nei diversi territori vivono in condizioni di impoverimento e di disagio pur avendo diritto a una vita libera e dignitosa.
Costruire la sinistra che non c’è
Nella crisi globale il momento nazionale e il momento internazionale dell’agire politico sono inscindibili, e interagiscono in un rapporto di reciproco condizionamento. Ma se la sinistra si separa dalla società e dal lavoro, che della società costituisce il basamento, in quanto forza produttiva della ricchezza reale insieme alla natura e fattore costitutivo della persona umana, allora ogni discorso sulla sinistra e sull’alternativa politica resta un flatus vocis, una buona intenzione generosa ed encomiabile senza alcun riscontro con la realtà. Porre la questione dell’alternativa politica in termini di scissione del Pd vuol dire non cogliere la sostanza del problema. Oltre che riduttivo, è sbagliato. Se, come argomenta in modo convincente Fassina, una sinistra per l’alternativa in grado di incidere sul corso delle cose oggi non esiste, allora il tema vero all’ordine del giorno è il seguente: come si costruisce la sinistra?
Per rispondere occorre tener conto di diversi elementi, avendo ben presenti gli errori del passato. Come quando nel 2002, per citare un solo esempio, di fronte all’enorme sommovimento sociale promosso dalla Cgil di Cofferati e culminato con l’insuperata manifestazione di popolo al Circo Massimo, da sinistra non venne una risposta che ne accogliesse le istanze sul terreno politico, di contenuti e di rappresentanza. Attenzione: nelle mutate condizioni di oggi, è un errore altrettanto grave guardare con sufficienza e con sospetto alla coalizione sociale promossa da Landini.
Al contrario, una iniziativa che non si propone di dar vita a un partito ma intende unificare sul terreno sociale le diverse forme di lavoro per tutelarne i diritti ed estenderne le tutele, rinnovando al tempo stesso il sindacato confederale ed estendendo le forme di partecipazione democratica nei luoghi di lavoro e nei territori, non può non sollecitare l’interesse attivo, la solidarietà e una costante attenzione da parte di chi dichiara di voler costruire la sinistra. A meno che non si ritenga che la sterilizzazione dei movimenti sociali, e il ripiegamento nella trincea pur necessaria delle regole, siano la condizione migliore per costruire la sinistra politica.
Un ulteriore passo da compiere, mettendo definitamente da parte vecchie e nuove contrapposizioni, distruttivi egoismi e vacui egotismi, è dare vita a luoghi di incontro e di iniziative comuni tra tutti coloro che - espressioni di movimenti sociali e sindacati, di associazioni e formazioni politiche, personalità della cultura e della ricerca - intendono contribuire alla costruzione della sinistra, vale a dire di una soggettività politica che punti a rovesciare il paradigma imposto dai mercati e dal capitale finanziario. Centralmente, attraverso la delineazione di un programma fondamentale per l’Italia e per l’Europa. Localmente, attraverso l’individuazione di piattaforme di movimento e di lotta democratica che uniscano ampi schieramenti, in una continua interazione dal basso e dall’alto.
L’esperienza dell’Altra Europa con Tsipras, praticata in questi mesi, pur con limiti evidenti e con i necessari approfondimenti e arricchimenti, può essere un punto di riferimento utile su entrambi i versanti. In ogni caso, è auspicabile collegare stabilmente le diverse iniziative in corso, anche con momenti di mobilitazione comune, in particolare quelle della coalizione sociale con quelle promosse dal Coordinamento per la democrazia costituzionale.
La Costituzione, coalizione sociale e coalizione politica
Forma e sostanza della nostra Carta fondamentale non possono essere disgiunte, come insegnano illustri costituzionalisti. E non è pensabile che la Costituzione possa essere difesa e applicata sul terreno dei diritti civili e politici mentre vengono distrutti i diritti sociali e del lavoro, la vera conquista storica che va oltre l’impianto liberale dello Stato democratico. L’indivisibilità dei diritti, un principio fondamentale non sempre riconosciuto, emerge del resto con tutta evidenza nello svolgersi della crisi dalle stesse iniziative del governo, che insieme al Jobs Act produce una legge elettorale con la quale una minoranza residuale del corpo elettore si trasforma in maggioranza assoluta nel Parlamento. D’altra parte, se vogliamo che la lotta per la Costituzione e la sua attuazione esca dal perimetro delle battaglie pur meritorie degli specialisti per diventare un fatto di massa, è indispensabile concentrare l’attenzione, oltre che sui principi fondamentali (artt.1-12), soprattutto sul titolo III, riguardante le relazioni economiche e i diritti sociali (artt. 35-40).
In conclusione, si scopre oggi in tutta la sua interezza la contraddizione lacerante e distruttiva in cui da tempo vive il Paese. «Come può l’intervento della politica dare spazio al lavoro - osservavo nel 2011 - ed esercitare un controllo sul capitale, se i portatori di interessi offesi e contrapposti a quelli del capitale […] sono privi degli strumenti della politica? E come può reggersi una repubblica fondata sul lavoro se i lavoratori non hanno alcun peso politico?». «La repubblica democratica è stata disancorata dal suo fondamento e sta andando alla deriva. Eliminato il principio coesivo del lavoro l’Italia ha perso la forza propulsiva del suo rinnovamento, ed è destinata a declinare in uno stato di crisi permanente. L’alternativa è un ferreo regime autoritario, incardinato sulla dittatura del capitale» (La bancarotta del capitale e la nuova società, Editori Riuniti, pp. 166-67).
Oggi, alla luce del contesto internazionale e interno, con milioni di diseredati che premono ai nostri confini mentre l’Europa si blinda mostrando il viso delle armi e moltiplicando i pericoli di guerra, quella contraddizione appare ancora più profonda. Chi ci governa ha messo sfrontatamente i piedi nel piatto, e per rovesciare la tendenza in atto non basta certamente un’opposizione che agisce solo nel sociale. Occorre un’alternativa strategica sul terreno politico, sorretta da un ampio blocco sociale. In questa ottica bisognerebbe approfondire in tutte le sue implicazioni la categoria dello «Stato monoclasse», recuperata di recente da Stefano Rodotà (Micromega del 17 marzo 2015). Come pure l’osservazione di Michele Prospero ripresa da Tocqueville, secondo cui quando gli affari politici «vengono trattati fra i membri di un’unica classe […] non è possibile trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi la guerra», e «i vari colori dei partiti si riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale» (il manifesto, 4 marzo 2015).
Ecco dunque il centro del problema. La sinistra ha un senso e la costruzione dell’alternativa politica diventa possibile se alla proposta della coalizione sociale si accompagna la costruzione della coalizione politica dei nuovi lavoratori e delle nuove lavoratrici del XXI secolo. In caso contrario, la coalizione sociale e l’alternativa politica sono destinate entrambe al riflusso e al fallimento. Ogni sincero democratico dovrebbe sentire il dovere di misurarsi senza preconcetti nell’impegno di costruire un’ampia e unitaria coalizione politica del lavoro moderno, con caratteristiche popolari e di massa. La parzialità politicamente organizzata sul versante del lavoro è oggi indispensabile per limitare il potere dominante del capitale e perché prevalga davvero l’interesse generale secondo i principi costituzionali. La parte per il tutto: la parte del lavoro perché il patto tra gli italiani sia rispettato. Di più: la coalizione politica del lavoro è condizione ineludibile perché la democrazia possa essere garantita e avanzare verso nuovi sviluppi. Nel segno della libertà e dell’uguaglianza di ogni essere umano, in Italia e in Europa.
[1] Il confronto si svolgerà il 6 maggio alle ore 16 presso la sala Fredda della Cgil di Roma in via Buonarroti 12. Per il programma e le modalità di svolgimento www.arsinistra.it

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