Deborah Dirani Donna, prima. Giornalista, poi.
Sono stata 8 mesi senza uno straccio di lavoro, è
successo 5 anni fa. Alzarmi dal letto la mattina aveva senso solo perché
dovevo portare a spasso il cane. Puntavo la sveglia alle 7 e mezzo: mi
trascinavo fuori dalle coperte, mi lavavo faccia e denti, mi facevo il
caffè e andavo ai giardinetti a pascolare il mio cucciolo. Dopo un'ora
ero di nuovo in casa. E sapevo esattamente cosa mi aspettava: un giorno
vuoto, inutile e affamato. Avevo 36 anni, una laurea col massimo dei
voti, un master e un curriculum di 4 pagine. E non sapevo cosa farne.
Ondeggiavo come un'ubriaca dondolando tra rabbia e dolore, frustrazione e
angoscia. Chiamavo i miei e gli chiedevo i soldi per la spesa. Avevo 36
anni e me ne sentivo 80. Andavo in giro inalberando sorrisi e ottimismo
perché mi vergognavo del dolore che sentivo. Evitavo le mie amiche,
quelle che mi leggono il cuore passando dagli occhi, perché sentivo di
avere deluso tutte. Ero sola per 24 ore al giorno, quasi ogni giorno:
cacciavo fuori dalla mia vita chiunque tentasse di avvicinarla. Non
avevo posto per altro che per me e il mio senso infinito di fallimento."La Dirani non ce l'ha fatta".
Mi stringevo al mio cane e piangevo: io che non piango mai, mi sfinivo gli occhi di lacrime e lasciavo che lei, il mio cane, me le leccasse via. A volte dopo la prima passeggiata al parco, mi rinfilavo nel pigiama e mi rimettevo a letto. Era meglio dormire di giorno che di notte. Se dormi di giorno non pensi che quelle sono le ore in cui la gente lavora. Ti senti più normale, meno disadattato, meno fallito. Altre volte rientravo in casa e mi mettevo al computer e inviavo curriculum ovunque intravedessi qualcosa di lontanamente simile al mio mestiere. Faccio un mestiere strano: lavoro con le parole e le parole, in tempo di crisi, si riducono al minimo. Meglio il silenzio, costa di meno. Ma io avevo fame. Ce l'avevo per davvero: pasta al burro a pranzo e cena. A volte solo a cena.
È un attimo perdersi nella disperazione dell'inedia. È un attimo pensare che il mondo non è il posto per chi non ha niente da fare, per chi non è produttivo, per chi non sa correre e vede il traguardo allontanarsi.
Ma io avevo un brutto carattere, e l'ho mantenuto: è stato il mio brutto carattere a conservarmi in vita. Sono revanscista peggio dei tedeschi dopo la caduta di Berlino e orgogliosa fino all'idiozia. Per questo oggi posso scrivere di quegli 8 mesi da incubo. Perché alla fine ho sfondato una porta: l'ho tirata giù a spallate e ginocchiate, sputando e smadonnando. Era una porta minuscola ma si apriva su 500 euro al mese: 6 ore di lavoro al giorno per 5 giorni la settimana, un contratto di lavoro firmato su un foglio a quadretti e: "Inizi domani".
È stato il domani più bello della mia vita quello lì. La sera, dopo 8 mesi, sono andata a letto non più sola. Sul cuscino a fianco al mio c'era la speranza. 500 euro non sono niente per un sacco di gente che conosco: per me sono stati la vita che ricominciava. Ricominciava dalle mie spalle rotte e ricominciava dal gradino più basso, ma chi se ne frega. Ce l'avevo fatta: ero sopravvissuta. Ero stata fortunata.
Non posso dimenticarmi dei miei 8 mesi di inferno e per questo non posso non capire la disperazione di quell'uomo che per non vivere, forse di nuovo, il suo ha preferito lasciare il sangue sul selciato.
E non posso non pensare che Steve Jobs abbia preso in giro l'umanità con la sua storia della fame e della follia: perché se l'umanità si arma di forbici e si toglie di torno lo fa perché ha fame e non sa come nutrirsi.
E la fame annebbia il cervello, sì, anche fino alla follia. Io lo so.
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