domenica 1 febbraio 2015

La distanza tra Syriza e il Pd.

Tornare dalla Grecia e assistere all’approvazione dell’Italicum in Senato mette tristezza, ma consente di fare chiarezza sulle radicali differenze fra Tsipras e Renzi, fra Syriza e il Pd. Contro abusivi parallelismi, per fare chiarezza occorre alzare lo sguardo, e abbracciare tutta la lunga fase della rivoluzione conservatrice e neo-liberista cominciata con le vittorie di Thatcher e Reagan: un’egemonia che ha significato la riduzione dello stato sociale e l’affermarsi di forme di governance post-democratica.

sbilanciamoci Jacopo Rosatelli
L’Unione europea, intesa come istituzione e come insieme di Paesi, non ha fatto eccezione, anzi: le tecniche di governo post-democratiche – si pensi al circuito Commissione-governi nazionali sul semestre economico per l’approvazione dei bilanci – hanno trovato a Bruxelles la sperimentazione più avanzata. Pur in presenza di contro-spinte positive, dalla stesura della Carta dei diritti di Nizza alla timida crescita del ruolo del Parlamento di Strasburgo.
In Italia è risaputo che il «lungo trentennio conservatore» porta il segno del berlusconismo, incubato negli anni del craxismo in cui, sotto il manto della «modernizzazione», sono state messe in discussione non solo le conquiste sociali (un simbolo: il decreto di San Valentino), ma anche gli assetti costituzionali. È la vicenda infausta della «grande riforma» che, iniziata nel cuore degli anni Ottanta, appare oggi compiersi nel disegno di Renzi del «Sindaco d’Italia», effetto voluto della nuova legge elettorale. La rappresentanza parlamentare è distorta ma anche svilita, in coerenza con il mutamento di natura dei partiti, ridotti a holding – «contendibili» solo da chi ha i soldi per lanciare un’Opa – per la produzione di (mediocri) oligarchie elettive. E, sul piano sociale, il completamento dell’opera incominciata all’alba del lungo trentennio conservatore si compie nelle nuove norme sul mercato del lavoro: apprezzate, non a caso, da Jirki Katanien e soci, nel loro ruolo di «custodi della rivoluzione» neo-liberista.

Se Obama negli Usa ha, pur con difficoltà e contraddizioni, chiuso il lungo ciclo inaugurato da Reagan, in Europa le cose sono purtroppo andate diversamente. Né i socialisti francesi, né i socialdemocratici tedeschi, né il centrosinistra italiano hanno scalfito l’egemonia di destra. L’arretramento è continuato anche dopo lo scoppio della crisi, e le regole della governance economica Ue sono la quintessenza della profonda crisi della democrazia costituzionale. Il semestre di presidenza italiana non ha invertito la rotta: la questione della legittimità democratica è stata ignorata a dispetto dei solenni discorsi (a braccio) sulla «nuova anima dell’Europa», e i fantomatici 300 miliardi del piano Juncker sono ben lungi dall’essere sufficienti per far crescere davvero l’economia e combattere la disoccupazione. Secondo la Confederazione europea dei sindacati ne servirebbero 3000: uno zero in più.
Il primo, vero, e finora unico granello di sabbia nell’ingranaggio della rivoluzione neoliberista è quello di Tsipras, come mostrano chiaramente i suoi primi provvedimenti. E, forse, se ne aggiungerà un altro con Podemos. Esperienze diverse, ma unite da una caratteristica cruciale: in entrambi i casi c’è un nesso decisivo fra questione sociale e questione democratica, le due facce dell’egemonia conservatrice. Un nesso fra lotta all’austerità e conquiste di spazi di autodeterminazione popolare. Contro le oligarchie politico-economiche che hanno impoverito i loro Paesi dopo avere ridotto il gioco democratico ad asfittico bipartitismo. Gli Indignados sono la «gioventù senza futuro» che rifiuta un sistema politico bloccato, fondato su una legge elettorale ingiusta perché cucita su misura dei due partiti maggiori. Il grande consenso di Syriza porta lo stesso segno. L’Italia di Renzi è decisamente un’altra storia: ciò che altrove si interrompe, da noi si compie.

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