Mi capita piuttosto sovente di presenziare attonito a dibattiti pubblici o discussioni informali in cui si prova, spesso con risultati fallimentari, a disquisire di religione. Non discuto circa il fatto che si tratti di un tema rispetto al quale tutti hanno diritto ad esprimersi: quello che intendo discutere è l’assurda prassi ormai invalsa, secondo cui, in ambito religioso, ognuno si sente in diritto di prendere la parola, senza previamente svolgere un percorso, seppur minimo, di formazione o, quantomeno, di informazione.
micromega a.espositoE, come spesso accade, chi meno ha indagato più sproloquia, millantando pseudo-conoscenze che altro non sono che l’imbarazzante rivisitazione in chiave personale di luoghi comuni.
Provando a prescindere dal coinvolgimento emotivo ed ideologico che puntualmente emerge nei soggetti impegnati in una discussione sul tema, credo che l’essenziale consista nel dedicarsi allo studio del fenomeno religioso nelle sue molteplici sfaccettature ed implicazioni: e questo, nella misura del possibile, è un percorso che dovrebbe avere inizio nell’ambito della scuola pubblica, la quale, in luogo di un insegnamento confessionale della religione cristiana, dovrebbe fornire a chi la frequenta una formazione culturale che consideri le religioni quali prodotti della storia e dello spirito umano.
Dissento in parte dalla proposta effettuata un mese fa dal professor Vito Mancuso sulle colonne del quotidiano La Repubblica,[1] secondo cui, cito, «occorre trasformare l’ora attuale da insegnamento della religione cattolica in un’ora in cui siano presentate “tutte” le religioni, ovviamente (?) in proporzione all’importanza di esse per l’Italia», pur concordando con lui circa la necessità di «togliere alla chiesa cattolica ogni potere in merito a programmi e scelta degli insegnanti» (altra anomalia tutta italiana). Ferma restando l’imprescindibilità di conferire alla formazione in ambito religioso un profilo integralmente laico e scientifico, come di fatto dovrebbe avvenire in ogni pubblica istruzione che si rispetti, ritengo più percorribile una via distinta da quella proposta dal professor Mancuso e che articolerei in due filoni principali.
Il primo di essi è quello di uno studio del fenomeno religioso che conferisca priorità al metodo storico-comparativo, in modo tale che le distinte tradizioni non vengano semplicemente passate in rassegna l’una accanto all’altra, ma vengano messe in luce le analogie e le differenze che le caratterizzano sotto il profilo della struttura immaginativa e di pensiero che dà loro vita e forma.
Il secondo filone dovrebbe invece articolarsi a partire dall’interdisciplinarietà, accostando il fenomeno religioso nelle sue articolazioni storiche dal punto di vista delle scienze umane (filosofia, psicologia, sociologia, antropologia, letteratura), in modo tale da consentirne una lettura che dia ragione della sua complessità e dei suoi molteplici risvolti, assai interessanti al fine di comprendere meglio l’insondabilità della nostra psiche e della sua capacità di creare cultura.
L’approfondimento del processo storico, sociale, psichico ed antropologico che porta alla formazione dei sistemi religiosi, dovrebbe costituire una componente importante della formazione umana e culturale di ogni studente: se saremo capaci di assolvere a questo compito, è probabile che in futuro si potrà discutere di religione con più competenza e meno suscettibilità.
Alessandro Esposito, pastore valdese in Argentina
[1] Mi riferisco all’articolo intitolato: Un nuovo spettro si aggira per l’Europa, pubblicato sul numero de La Repubblica di giovedì 22 gennaio 2015.
(24 febbraio 2015)
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