Come era prevedibile - ma non previsto dall'establishment italiano ed
europeo - la situazione dei profughi generata dai conflitti nei paesi
del Medio Oriente, del Mediterraneo e dell'Africa subsahariana è
diventata esplosiva.
Guido Viale
Economista ed ecologista
Giorno dopo giorno i flussi in arrivo aumentano e
non sono destinati a fermarsi. Ci sono più di sei milioni di profughi
che non potranno restare a lungo in paesi devastati da bombe ed esposti a
continue incursioni da parte di eserciti e milizie ogni volta diversi.
Poi ci sono anche quelli che fuggono da paesi devastati non solo dalle
guerre, ma anche da un'estrazione incontrollata di risorse naturali.Si è giustamente rivendicata l'istituzione di "corridoi umanitari" per permettere a tutte queste persone di raggiungere i paesi europei senza affrontare un viaggio che li espone a rischi mortali, che provocano vere e proprie stragi, e a costi enormi, frutto dei risparmi di una vita o di una grande famiglia, che vanno ad alimentare le casse di scafisti e bande armate. Dopo l'istituzione di un sistema di sorveglianza delle coste come Triton, che ha il solo scopo di respingere e dissuadere coloro che tentano, o sono ormai anche costretti ad affrontare la traversata del Mediterraneo - in sostituzione di Mare Nostrum, che aveva lo scopo di salvarli - la risposta dell'Europa è quella di intercettare almeno una parte di quei flussi prima che raggiungano i paesi - soprattutto la Libia - da cui imbarcarsi. Niente viene detto su quale possa essere il destino delle persone in fuga che verranno fermate e internate con questo sistema. Ma è chiaro, quale che ne sia l'esito, che si tratta solo di una goccia nel mare dei profughi che premono e premeranno alle frontiere della fortezza Europa. Che sono milioni.
Ma il vero problema, di dimensioni infinitamente maggiori, viene dopo. Dove "metterli" una volta arrivati? E' chiaro che le strutture a ciò predisposte - veri e propri centri di internamento, di sopraffazione e di tortura - non bastano più. Bisogna attrezzarsi per affrontare sbarchi e altre forme di arrivo da contarsi in centinaia di migliaia, se non in milioni, di unità, invece delle decine di migliaia che le nostre autorità già giudicano "insostenibili". Non è un problema temporaneo; è destinato a dare luogo a una permanenza prolungata, se non definitiva. Ed è un problema che riguarda tutta l'Europa. Un problema che non può essere scaricato sui paesi che si trovano sul confine degli sbarchi o degli ingressi via terra, come ipocritamente previsto dal trattato Dublino III (2013), che ricalca il dettato di Dublino II (2003: quello firmato da un governo di cui faceva parte anche Salvini, che oggi li vorrebbe buttare tutti a mare) e della Convenzione di Dublino (1990), secondo cui dei profughi deve farsi carico solo il paese di arrivo. Ma arrivano in Europa, non in Italia, in Spagna o in Grecia! E' un problema nell'immediato logistico e finanziario, ma soprattutto normativo, che richiede una revisione radicale dei trattati, e culturale; che non può essere rimandato. Mentre le autorità europee stanno cercando di mandare a fondo la Grecia - e con essa l'intera traballante costruzione dell'euro, e forse dell'Unione - per una manciata di miliardi, chiudono gli occhi di fronte a un problema di dimensioni infinitamente maggiori. Ma un problema che hanno loro stesse, insieme alla Nato, contribuito a provocare con i loro interventi dissennati in Iraq, in Libia, in Somalia, in Siria. O con la loro inerzia, l'assenza totale di una politica estera.
Le soluzioni attuali, quelli che hanno trasformato le autorità italiane di pubblica sicurezza in "scafisti di Stato" - che lasciano "liberi" i profughi che non sanno più come sistemare nei luoghi di detenzione, o che li fanno accompagnare alla frontiera per spedirli di nascosto in paesi del nord e centro Europa, dove molti di loro vogliono arrivare - funzionano già oggi male con poche migliaia di individui; ma certo non si possono adottare di fronte ai flussi di un domani assai prossimo. Potete immaginare che cosa significherebbe scaricare per strada centinaia di migliaia di persone senza cibo, senza soldi, senza documenti, senza la conoscenza della lingua, senza un indirizzo dove andare, come si sta facendo sempre più spesso ora? Significherebbe trasformare l'Italia in un paese percorso da bande di disperati e di predoni. Non è dello sbarco di qualche terrorista mischiato ai profughi che dobbiamo aver paura. Loro hanno ben altri mezzi per raggiungere il nostro paese; quando, cosa sempre più frequente, non vi siano nati. Dunque, lasciare le cose come stanno significherebbe cacciare l'Italia dall'Europa in modo ben più ignominioso di quanto si cerca di fare con la Grecia.
Nessuno ha ancora provato a calcolare quanto può costare in termini economici un cambiamento di scenario come quello che si prospetta; né quante strutture di accoglienza ci vorrebbero, e di che tipo; né come affrontare in termini sociali e politici il problema. Ma conviene cominciare a farlo, e in fretta! Innanzitutto non si possono costruire in Europa prigioni e campi di detenzione per milioni di persone. Accoglierle in modo decente, in strutture e abitazioni salubri, mettendo a loro disposizione le risorse indispensabili a un'esistenza dignitosa - e possibilmente impegnandoli direttamente nelle attività di adattamento di quelle strutture e di gestione della loro vita quotidiana - costa meno, pro-capite, che costruire prigioni e lager, farli sorvegliare a vista da plotoni di guardie e affidare la loro "gestione" a cooperative di ladri. E potrebbe anche essere un primo passo, debitamente assistito e accompagnato, per creare relazioni di reciproca accettazione con le comunità che li ospitano: soprattutto se i nuovi insediamenti saranno adeguatamente diffusi su tutto il territorio. E' chiaro che un approccio del genere richiede un piano di dimensioni europee per programmare con cura gli insediamenti e per finanziarli; escludendo, per cominciare, dai vincoli del patto di stabilità le risorse da destinarvi. Se non ci riuscirà la Grecia a far saltare i trattati, ci penseranno i profughi. Ma ci sono alternative? No, non ci sono. E' mai possibile pensare di confinare per anni e anni, e sempre più con le armi, nei paesi di origine, o nei campi profughi del Medio Oriente, una massa così ingente di persone che cercano solo di sopravvivere?
Ma il compito principale sarà comunque promuovere la tolleranza nei confronti dei nuovi arrivati, confrontandosi in modo aperto e senza ipocrisie - cosa che finora ben pochi hanno tentato di fare - con i tanti imprenditori della paura che speculano per promuovere il razzismo. Qui le risorse della cultura, che finora sono mancate, sono essenziali. Ma di quale cultura? Di una cultura, oggi sicuramente minoritaria, che ha smesso di considerare l'Europa, e i suoi popoli, e le sue tradizioni, il centro del mondo. Che smetta di parlare dell'Europa come di un faro di civiltà: in fin dei conti Auschwitz lo abbiamo creato noi, e ne portiamo tutti la responsabilità. Ma anche, e soprattutto, delle culture di cui sono portatori le tante e diverse nazionalità dei nuovi arrivati, creando le condizioni perché possano esprimersi nel modo più libero. Sembra un'utopia. Ma ci sono alternative? Le alternative sono solo l'instaurazione, in tutti i paesi europei, di un regime di apartheid sistematico, di sistemi securitari fondati sulla paura, di una vita quotidiana fondata sulla discriminazione; e di uno stato di guerra permanente: sia ai confini che al nostro interno.
Non si è riusciti a ottenere dei risultati in questo campo - obietterà qualcuno - in paesi che conoscono massicce immigrazioni da ben prima di noi. Perché mai le cose dovrebbero cambiare ora? Perché è cambiata la situazione internazionale. Ieri l'Europa assediava e colonizzava -militarmente o economicamente - i paesi da cui provenivano i "suoi" immigrati. Oggi ne è in qualche modo assediata - anche se non se ne è ancora accorta, o sta accorgendosene solo ora - e deve imparare a conviverci su un piede di parità. Una convivenza che può e deve cominciare qui, dove si svolge la nostra vita quotidiana; ma che rende necessario che le tante comunità di altre nazioni, presenti sui nostri territori possano organizzarsi, sia in termini sociali che politici. Sono loro, d'altronde, le prime e maggiori vittime della ferocia dell'Isis e delle altre forme di integralismo islamico: in Africa come in Medio Oriente. Più che chieder loro di "dissociarsi" ad ogni nuova manifestazione di quella ferocia, occorre invitarle a una comune battaglia a favore di nuove forme di convivenza nel rispetto degli orientamenti culturali e sociali di ciascuno. Nei loro paesi di origine, con cui mantengono forti legami e anche, spesso, l'aspirazione a farvi ritorno. Ma innanzitutto qui. E questa è una cosa di cui dobbiamo dimostrare di essere capaci innanzitutto noi, cittadini di un'altra Europa.
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