Matteo Renzi annuncia l’intenzione di istituire un 5 per mille anche per la scuola (e la cultura, ma per questa ci sarebbe già l’8 per mille). Sembra di capire che ciò consentirebbe ai cittadini di indicare a quale istituto intendono devolvere parte delle proprie imposte.
micromega c. saraceno
Sembra una
bella idea: renderebbe disponibili risorse a scuole in affanno e
responsabilizzerebbe i cittadini rispetto alle proprie scuole, del cui
uso del denaro rispetto agli obiettivi fissati avrebbero anche un
controllo più vicino. Prima di farci prendere dall’entusiasmo, tuttavia,
vale la pena di soffermarci su due punti.
Il primo riguarda il fatto che, a seconda
di dove sono collocate, in quali città e quartieri, le scuole avranno
possibilità molto diverse di ottenere il 5 per mille da parte dei
cittadini, a partire dai genitori degli alunni che li frequentano. Sarà
molto probabile che le scuole nei quartieri più ricchi, comunque
frequentate da alunni più abbienti, attrarranno 5 per mille più
numerosi e più generosi delle scuole dei quartieri più periferici e/o
frequentate da alunni in condizione economicamente più modesta.
Difficile che le scuole di Quarto Oggiaro a Milano, Scampia a Napoli o
Falchera a Torino possano contare su una quota significativa di 5 per
mille.
Si allargherà, così, ulteriormente il
divario tra le scuole rispetto sia ai bisogni, sia alle risorse
necessarie e disponibili, proprio mentre diminuiscono – per la logica
stessa del 5 per mille – le risorse disponibili per l’azione dello Stato
in questo come in altri campi. Se mai verrà introdotta questa
possibilità di destinare una quota delle proprie imposte ad una
particolare scuola, sarebbe opportuno che lo Stato si impegnasse
formalmente e in modo vincolante a investire prioritariamente nelle
scuole – e nei loro alunni – nelle situazioni più svantaggiate. Lo
dovrebbe fare già adesso, ma tanto più se introducesse un fattore di
potenziale ulteriore squilibrio.
Purtroppo, la storia non induce ad
essere molto ottimisti sugli impegni formali dello Stato quando si
tratta di destinazione di fondi in linea di principio con vincolo di
destinazione scelto dai cittadini. Questo è il secondo punto su cui
vorrei soffermarmi. È avvenuto per l’attuale 5 per mille, quando lo
Stato ha deciso a priori quale quota dovesse andare ad una particolare
iniziativa, per quanto nobile, riducendo quindi la possibilità di scelta
dei cittadini.
Avviene soprattutto sistematicamente
nel caso dell’8 per mille attribuito allo Stato e che questi dovrebbe
assegnare a sua volta a progetti particolarmente meritevoli nei settori
cui quel fondo è destinato dalla norma: lotta alla fame nel mondo,
calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni
culturali. In questo caso, in realtà, il problema, e l’imbroglio a
carico dei cittadini, è complesso e di proporzioni enormi. In primo
luogo, infatti, lo Stato (indipendentemente dal governo in carica)
destina solo una piccola parte della quota indicata dai cittadini alle
attività cui sarebbe tenuto per legge, usando viceversa quei fondi come
una sorta di pronta cassa per le iniziative più varie – dalle missioni
internazionali all’acquisto di aerei per la protezione civile fino alle
misure di sostegno alle piccole imprese e all’assunzione di giovani.
Personalmente ritengo che l’8 per
mille non dovrebbe esserci e che comunque lo Stato non dovrebbe essere
uno dei possibili destinatari, in quanto le attività di solidarietà
sociale gli competono di principio, non perché i cittadini decidono di
finanziarne una o l’altra. Ma se quella norma esiste, va almeno
ottemperata e non aggirata. In secondo luogo, lo Stato continua a
mantenere in vigore quello che non so se sia un accordo formale entro il
Concordato o solo una prassi, secondo cui, a differenza che per il 5
per mille, è l’intero 8 per mille delle entrate Irpef che viene
suddiviso tra Stato e varie chiese sulla base della distribuzione delle
scelte effettivamente fatte.
Di conseguenza, anche se meno del 50%
complessivo dei contribuenti effettua una scelta alla Chiesa cattolica,
indicata dal 35% dei contribuenti, ad essa va oltre l’85% dell’introito
complessivo, con buona pace della trasparenza e della fiducia dei
cittadini nella correttezza dello Stato nei loro confronti. Questo
meccanismo avvantaggia certamente, sia pure in misura più ridotta, anche
le altre Chiese, che avrebbero una comunità troppo piccola su cui
contare se valessero solo le scelte esplicite. Così, la Chiesa Valdese,
con un 0,89% di scelte effettive nel 2010 ha avuto una quota del 2,05 e
le Comunità ebraiche, con lo 0,16% di scelte hanno ricevuto una quota
dello 0,36%. Se è una prassi, va cambiata.
Se è una norma del Concordato, va
rinegoziata. Sarebbe stato bello sentire sollevare il problema dai
nostri autorevoli rappresentanti, a partire dal presidente Mattarella,
nelle recenti celebrazioni dei Patti Lateranensi. Nel frattempo, prima
di introdurre un altro 5 per mille, forse lo Stato farebbe meglio a
tener fede ai propri impegni, sia per quanto riguarda l’equità nella
spesa pubblica, sia per quanto riguarda l’uso dei fondi che i cittadini
gli affidano perché li destini a iniziative precise e qualificate di
solidarietà.
Chiara Saraceno
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