martedì 24 febbraio 2015

Scuola. Renzi, la messa in scena dell’ascolto sulla riforma.

E ci diranno che anche questa volta hanno ascoltato la scuola. E vorranno farvi credere che si è trattato di uno dei tanti incontri in cui questo democraticissimo partito-governo o governo-partito si è dialogicamente posto all’ascolto. Niente di più falso. Ancora una volta – con il consueto scenario patinato – si è celebrato il nulla.

Insegnante
Berlusconi ricorreva a delle (spesso pessime) barzellette. Renzi usa una strategia opposta: lui bambino/studente, la maestra, la moglie precaria; fiumi di parole, con cui imbonisce la platea, per lo più acquiescente; una cordata di docenti (o sedicenti tali) fidelizzata ed entusiasti a fare da claque (i 1000 innamorati della scuola?), conniventi al punto da sfogare il proprio livore iconoclasta persino sugli stessi colleghi. Dicendo bugie, mentendo sfacciatamente. Sullo sfondo – dietro il grande oratore – la paralisi facciale atteggiata ad un sorriso compiaciuto e vincente delle vestali: Puglisi e Giannini, da poco militanti nello stesso partito, il Pd. Ilari all’ascolto delle butade dell’imbonitore. In mezzo Faraone.
La kermesse è stata celebrata nella totale indifferenza all’“ascolto”, intollerante delle numerose voci di dissenso che anche ieri si sono alzate. Fuori: un gruppo di docenti dell’Usb, allontanati con la “persuasione” dalle forze dell’ordine, due dei quali portati in questura, identificati, perché intenti ad un atto sovversivo: volantinavano. Dentro, un altro gruppo è stato “silenziato” con metodi altrettanto persuasivi, come dimostrato dalle telecamere.

Non è la prima volta che accade. Nessuno disturbi il grande lavoratore; nessuno si opponga al nuovo che avanza. I padroni del Parlamento e dei media continuano a negare la verità. Lo fanno con una retorica ricorrente, quella che sta consentendo al premier di offuscare con perizia indiscussa, oltre al pensiero divergente, anche quel po’ di coscienza critica che permane nel nostro Paese.
Ai docenti che chiedevano di essere ascoltati, Renzi ha risposto: “Stiamo facendo questo esattamente da sei mesi. Adesso tocca a noi, poi casomai prendiamo un caffè”. Sempre scanzonato, falsamente democratico, lascia passare messaggi falsi. Falsi perché non c’è alcuna traccia di quello che il premier e le sue vestali sanno già perfettamente. Si è parlato di decreto legge e di legge delega, entrambi da rendere pubblici durante la settimana. Ma i contenuti dell’uno e dell’altra (a parte la questione della stabilizzazione del precariato) rimangono top secret, alla faccia della trasparenza e della condivisione. Tutto blindatissimo.
Si è trattato, casomai, di una scenografia funzionale alla celebrazione dell’anno di vita del governo e a scrivere “scuola” sull’agenda dell’autopromozione mediatica. Fiumi di parole, nessuna certezza, nessun contenuto: slogan, al solito. Retorica, merito, assunzioni. Probabilmente nelle segrete stanze (quelle dalle quali questo autoreferenzialissmo governo dichiara – ma dichiara solo – di voler emancipare qualsiasi atto riguardante la scuola) stanno ancora discutendo. “Chi ha idee le tiri fuori” ha detto Renzi.
Il comitato per il sostegno alla legge di iniziativa popolare “Per la Buona scuola per la Repubblica) non solo ha delle idee (una proposta alternativa, un articolato da contrapporre alla riforma Renzi, scritta sul pdf La Buona Scuola), ma le ha anche tirate fuori: al momento la Lip-scuola è un disegno di legge, depositato presso le commissioni cultura di Camera e Senato e che attende di essere calendarizzato. Ma il governo non ascolta.
Le idee sono state tirate fuori anche da centinaia di collegi docente, che si sono pronunciati contro la proposta del governo, che le ha ricevute in posta certificata, ma ha fatto finta di nulla. “Chi viene qui a fare pagliacciate per lo scopo di avere uno spazio in Tv”: così ha apostrofato i docenti che tentavano di essere ascoltati (a proposito di pagliacciate: il famoso apologo della pagliuzza e della trave nell’occhio…). È facile con un microfono in mano, un apparato scenografico senza precedenti, quasi tutti i media compiacenti, un gruppo di accoliti strettamente avvinghiati al carro del (per ora) vincitore, una opposizione solo di maniera all’interno del proprio partito, apostrofare così chi, con tutti i mezzi legittimi, sta tentando di dare voce al dissenso.
Parlano di ascolto. Ma è un ascolto condizionato, riservato solo a chi dice sì.
In un paese normale, però, cose del genere non dovrebbero accadere. Se la nostra assuefazione è tale da non farci rendere conto del bubbone che sta rendendo la nostra una democrazia solo di facciata; se la nostra inerzia è tale da impedirci di indignarci – ieri come in tanti altri casi – per l’uso della forza pubblica per bloccare il legittimo dissenso, allora vuol dire che stiamo perdendo ogni speranza di uscire dal guado mefitico in cui siamo impantanati da una ventina d’anni. Troppi, ormai.
Continuare a tollerare il gap sistematico e sistematizzato tra parole e fatti; la forzatura intenzionale delle pratiche democratiche (a questo proposito si veda l’appello contro l’uso del decreto legge per materie che non abbiano i requisiti dell’urgenza e della necessità); l’uso delle forze dell’ordine per silenziare il dissenso democratico non ci porterà lontano. Chiediamo alle forze politiche ancora in grado di costituire opposizione di aiutarci a difendere il nostro diritto al dissenso.

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