Il rapporto restituisce la fotografia di una situazione che potremmo definire di post-occidentalizzazione, riferendoci alle condizioni di lavoro prima riscontrabili nell'Europa dell'Est e nel lontano Oriente e ora anche nel Vecchio Continente.
Il processo è noto: per abbattere i costi e incrementare i profitti le imprese delocalizzano le loro produzioni in paesi dove possono reperire salari da fame, infime condizioni di lavoro e assenza di organizzazioni sindacali. Il settore dell'abbigliamento è tra i più attivi in questo campo: l'utilizzo di manodopera a bassi salari e diritti in Cina o in Bangladesh, come in Romania o Moldavia ne sono un esempio lampante. L'Europa economicamente unita, ma politicamente fragile, rappresenta un campo fertile per un movimento di capitali di questo genere. La facilità con cui i grandi marchi possono spostarsi da un Paese all'altro, chiudendo e aprendo stabilimenti, è incentivata dall'opacità delle regole comuni in termini di salari e diritti del lavoro.
La ricerca condotta in Italia mostra che dopo avere messo in ginocchio i piccoli produttori italiani, esportando la loro produzione in Romania, Moldavia, Bangladesh o perfino Cina (per citare solo alcuni paesi), ora alcuni grandi marchi fanno ritorno in Italia, per godersi i risultati benefici (per loro) di anni di politiche di internazionalizzazione. Succede ad esempio nella Riviera del Brenta, area a cavallo tra le province di Padova e Venezia, dove si producono calzature femminili. Dopo un ventennio di delocalizzazioni di piccoli e medi imprenditori contoterzisti, che se volevano lavorare se ne andavano in Romania o chiudevano, oggi, giganti come Luis Vuitton, Armani, Prada, Dior, sono tornati per comprarsi degli stabilimenti o aprirne di nuovi. E mentre Prada ha acquistato la Giorgio Moretto, Louis Vuitton ha fatto due acquisizioni e aperto un nuovo stabilimento a Fiesso d'Artico. Ci lavorano 360 persone fra cui molti modellisti, chiamati artigiani che svolgono attività di studio e progettazione per l'intera gamma di calzature Louis Vuitton.
I grandi marchi però accanto alla nuova occupazione portano con sé standardizzazione, flessibilità oraria, bassa scolarizzazione dei lavoratori, paura di perdere il posto di lavoro, scarsa sindacalizzazione: tutti elementi tipici delle fabbriche bengalesi o moldave.
Non deve quindi stupire se la filiera produttiva dei grandi marchi che rilocalizzano in Italia risulta composta da un'ampia rete di subfornitori medi e grandi, che a loro volta subappaltano fasi di lavoro a piccole imprese artigianali, incluse quelle cinesi ormai sono presenti un po' in tutti i territori a tradizione calzaturiera e dell'abbigliamento. La filiera è un insieme di gironi danteschi e più si scende, più magri sono i salari e peggiori le condizioni di lavoro, fino a potersi imbattere nel lavoro nero che ovviamente sfugge alle grandi griffes perché loro il rapporto lo tengono solo col primo anello della subfornitura. Ma spesso i prezzi che pagano sono così bassi da non lasciare molta scelta a chi sta alla base. In ogni caso, neri o legali che siano, la ricerca ha appurato che i salari dei lavoratori nei livelli contrattuali più bassi, cioè la stragrande maggioranza, non vanno oltre i 1100-1200 euro netti al mese, che secondo un calcolo dell'Istat nel Nord Italia non bastano per tirare avanti una famiglia di quattro persone, neanche se si abita in campagna. Certo, poi modellisti, montatori e dirigenti vari alzano il livello salariale medio, ma per quanti corrono lungo le manovie, le catene di montaggio delle calzature, le paghe non sono certo a un livello dignitoso.
Le condizioni di lavoro nell'industria italiana dell'abbigliamento e delle calzature sono mutate negli ultimi venti anni: molte le imprese che hanno chiuso, alta la riduzione del fatturato. Il ritorno delle grandi multinazionali è sicuramente positivo in termini occupazionali, ma può diventare catastrofico se si importano in Italia le condizioni di lavoro e i livelli salariali che le imprese trovano altrove.
Siamo di fronte ad un impoverimento odioso e progressivo, ormai sotto gli occhi tutti. I lavoratori, non a caso spesso definiti working poor, scivolano pericolosamente sotto la soglia di reddito che garantisce uno standard di vita minimo accettabile secondo l'Istat. Mentre, come abbiamo nuovamente appreso dal recente rapporto Grandi diseguaglianze lanciato da Oxfam in occasione del Wef di Davos, l'1% della popolazione mondiale composta di super ricchi avrà presto nelle sue mani più della ricchezza detenuta dal restante 99%. Tra questi tanti imprenditori della moda.
Uno scandalo che dovrebbe modificare le agende della politica per mettere al primo posto la vera priorità: l'individuazione di politiche fiscali ed economiche mirate ad una equa redistribuzione della ricchezza e una effettiva corresponsione di salari minimi dignitosi per tutti, sia nei paesi di recente industrializzazione, sia nel Vecchio Continente. È un problema gravissimo, le cui conseguenze in termini di instabilità politica e aggravamento della crisi economica dovrebbero causare sonni poco tranquilli a coloro che guidano le istituzioni democratiche. E intendono davvero lavorare per un futuro di prosperità e pace fra i popoli.
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