Non sono crollate le Borse, non sono arrivate le cavallette, nessuno ha ammazzato tutti i primogeniti nella notte e, insomma, alla fine, la vittoria della sinistra di Syriza in Grecia non ha ancora causato tutte quelle disgrazie, maledizioni e piaghe d’Egitto che ci dicevano alla vigilia. Lo stesso Alexis Tsipras ha subito una metamorfosi nella notte, almeno sui giornali italiani: tre giorni fa era un populista scriteriato che metteva a rischio l’Europa, e ieri era già diventato uno statista in grado di “cambiare verso” (ops!) alle dinamiche economiche del continente.
micromega a. robecchi
L’Europa (leggo i titoli) è “pronta a trattare”, la Mekel non manderà killer prezzolati, i politici italiani di ogni colore si rallegrano via twitter e tutti apprezzano che ad Atene si canti Bella ciao, anche quelli che quando la sentono suonare qui si fanno venire le bolle e vorrebbero piazzare le mitraglie sui tetti. Il misero quattro per cento di elettori che alle europee andarono a votare la Lista Tsipras in piena luna di miele del paese con Matteo Renzi – gli unici che avrebbero pieno diritto a festeggiare – sono una minoranza sommersa dai battimani di tutti gli altri, quelli che per mesi hanno tuonato contro i “conservatori”, “ideologici”, “vecchi” della sinistra, chiamata “estrema” per differenziarla da quella che qui va a pranzo con Verdini e ci fa le riforme insieme.
A pensarci un momento, è successo in una notte ad Alexis Tsipras quello che è successo in qualche mese alla parola “austerità”, una specie di inversione a U sull’autostrada. Prima – do you remember Mario Monti? – sembrava una specie di dogma religioso, un imperativo categorico, una faccenda di vita o di morte. Dopo – anche visti i risultati – si è cominciato a dire che insomma, sì, va bene, i vincoli, il tre per cento… ma con giudizio. Non solo una questione teorica, ma anche molto pratica, perché a cercare bene, si trovano tra i nemici dell’austerity e tra i neo ammiratori di Tsipras anche parecchi che votarono in Parlamento per mettere il pareggio di bilancio nella Costituzione, una specie di autogol da metà campo che resterà negli annali.
Non interessa qui valutare il grado di coerenza della politica (si parla di eletti, ma pure di elettori), anche perché è legittimo cambiare idea, e a volte (se ci si sbagliava prima) è anche giusto e doveroso. Ora la lettura prevalente è questa: il nuovo governo greco punterà forte i piedi con l’Europa per ristrutturare, o alleggerire, o disinnescare in qualche modo il suo debito, e il sud del continente (noi, la Francia, la Spagna, insomma i più schiacciati dal rigore e dall’austerity) potrebbe approfittarne. In termini tecnici significa mandare avanti i greci (fino a ieri spreconi e parassiti, vergogna, mantenuti, fancazzisti…) per vedere di guadagnarci qualcosa e poi, magari, una volta ottenuto qualche risultato in termini di allentamento dei vincoli o di revisione dei trattati, prendersi i meriti e fingere di aver vinto.
Si intravvede in filigrana un cinismo da competizione: se Tsipras riuscirà nel suo gioco avremo vinto noi (noi paesi che fino a due giorni fa adoravamo l’austerity come una totem severo ma giusto), e se invece il suo tentativo andrà a vuoto faremo finta di non averlo mai conosciuto: Tsipras chi? Come si vede il gioco è appena all’inizio, tutti guardano con apprensione alla Grecia, nel Pd incrociano le dita, sai mai che… Dopotutto, non c’è niente di meglio che rischiare di vincere qualcosa lasciando che a puntare, e a rischiare, sia qualcun altro.
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