Domenica vinceva le elezioni e in sole 72 ore ha già giurato sulla Costituzione, formato la squadra di governo e varato le prime misure anti-austerity per tamponare l’emergenza sociale nel Paese. Non sono mancate polemiche per l’alleanza con la destra populista. Ma ora ha di fronte la vera sfida: quella con la Troika. Da lì si capirà quanto il cambiamento promesso da Syriza sarà o meno reale.
Quando nel 2010 la piccola Grecia venne affidata alle amorevoli cure della famigerata Troika, all'inizio della crisi, il debito pubblico del Paese si attestava intorno al 130 per cento del Pil. Maledetti greci, che avevano imbrogliato sui conti, che non avevano voglia di lavorare, che spendevano soldi non loro come se niente fosse. Allora l'Europa decise che i vagabondi andavano rimessi in riga. La pacchia era finita.
Dodici manovre finanziarie dopo, con il potere d'acquisto delle famiglie ridotto del 40 per cento, con la disoccupazione schizzata alle stelle, con il 25 per cento del Pil polverizzato, con la creazione di due milioni di nuovi poveri, con la sanità pubblica smantellata, i greci si sono chiesti: va bene, abbiamo bevuto la cicuta, ma almeno adesso il debito pubblico è diminuito? No, non era diminuito: era aumentato al 177 per cento.
Ma scusate – ci si domanda noi, stavolta – e tutti i soldi che abbiamo versato per salvare quei vagabondi dove sono andati a finire? Dei 240 miliardi di euro di prestito agevolato di mamma Troika, 149,2 sono finiti a pagare gli interessi e il capitale degli stessi crediti della Troika. Altri 48 hanno ricapitalizzato le banche elleniche.
Ecco perché i greci, capita l'antifona, hanno votato Syriza. Perché Tsipras si propone di fermare una volta per tutto il circolo vizioso dell'austerità che, invece di curare il malato, lo uccide una volta per tutte. Il suo programma economico, presentato a Salonicco lo scorso settembre, è impegnativo; l’emergenza umanitaria nel Paese necessita di una terapia shock. Dopo le elezioni di domenica scorsa, il neo premier ha già giurato, formato il governo, presi i primi provvedimenti e adesso si prepara per l’incontro con i vertici di Bruxelles. Cioè la sfida su cui ha vinto le elezioni.
Il pragmatismo e la realtà
Basta una fotografia: i poliziotti rimuovono le transenne di fronte al Parlamento, in piazza Syntagma, perché «noi non abbiamo paura delle proteste del popolo: protestare è un fondamentale atto di democrazia». Si passa così dai sacerdoti delle larghe intese sotto al Partenone (i socialisti del Pasok, i conservatori di Nuova Democrazia) asserragliati nel Palazzo, impegnati a ratificare i memorandum imposti dalla Troika – le famose "riforme", una parola nobile per definire i tagli allo stato sociale –, al segnale distensivo di un esecutivo che vuol andare nel senso opposto. Cioè la redistribuzione delle risorse.
Il ragionamento di Syriza, alla sua prima esperienza di governo, è questo: nessun reale cambiamento è possibile senza la partecipazione popolare. Occorre «camminare insieme» per fronteggiare l'emergenza sociale, umanitaria, che sta vivendo un sempre maggior numero di persone.
Per farlo, Tsipras è sceso a patti con il diavolo, stringendo un’alleanza con la destra nazionalista e populista dei Greci Indipendenti (Anel). L'accordo ha suscitato non poche polemiche ed è stato criticato da una minoranza del partito – “Tendenza Comunista” – che infatti è rimasta fuori dal nuovo esecutivo. Una scelta difficile, figlia del pragmatismo e di una strategia politica.
Per soli due seggi Syriza non ha ottenuto la maggioranza assoluta. Rifiutare il governo sarebbe stato, con tutta probabilità, un autogol; in caso di nuove elezioni il partito della sinistra radicale sarebbe stato accusato di massimalismo, di incapacità di trovare compromessi con le altre forze politiche. Inoltre non accettare di formare un esecutivo avrebbe costretto il presidente della Repubblica ad appellarsi prima a Antonis Samaras (Nuova Democrazia) e, in caso di un nuovo insuccesso, ai neonazisti di Alba Dorata, giunti terzi.
Il carpe diem ha costretto Syriza alla sfida della formazione di un governo allargato. A chi? Coerenza minima voleva che si guardasse a quei movimenti che in questi anni hanno contrastato le politiche di austerità. Ma il Kke, forza comunista ortodossa, aveva già messo le mani avanti: «Syriza è un partito venduto nelle mani dei populisti». Nella lista rimanevano To Potami e Anel. Ma To Potami – una forza liberale centrista – non dava garanzie in questo senso. Non aveva votato le "riforme" semplicemente perché prima non esisteva, essendo stata fondata un anno fa. Anel invece, seppur da una visuale opposta a quella di Syriza, si era sempre opposta alle misure di austerità.
Tsipras quindi ha scelto un alleato che non tradisse la missione principale che si è dato: il cambiamento della politica economica. Del resto il voto in Grecia è stato un referendum non solo su se stessa, ma anche sul modello d’Europa.
Il braccio di ferro con la Germania sarà lungo e occorrerà l'unità nazionale, ha ragionato il gruppo dirigente di Syriza. E qui entra in gioco la storia del Paese. Che fino al 1974 ha vissuto la dittatura dei Colonnelli. Tsipras si è posto il problema della fedeltà delle forze dell’ordine. Non è un caso se il leader di Anel, Panos Kammenos, è diventato ministro della Difesa. Un messaggio per gli agenti, storicamente legati a settori autoritari e di destra; soprattutto dopo la circolazione sui giornali greci di una foto che ritrae Nikos Voutsis, neoministro degli Interni, durante una manifestazione in contatto con gli scudi delle forze dell’ordine. Un secondo messaggio distensivo è arrivato dallo stesso Voutsis che, vista l’immagine, ha annunciato di non voler sciogliere la squadra Delta, commando incriminato per una serie di operazioni violente.
Non è da escludere che tra 6 mesi, una volta rinegoziati debito e trattati con la Troika e ottenuto un “tesoretto” per far fronte all’emergenza umanitaria, Syriza decida di cambiare maggioranza o di “sussumere” 3-4 deputati di To Potami o del Pasok.
Il governo e l'Europa
In generale, per risparmiare risorse, i ministeri sono passati da 16 a 10. Il delicato e centrale ruolo della Finanza è andato a Yanis Varoufakis, il marxista irregolare (come si autodefinisce) che si è presentato così: «Distruggeremo le basi su cui hanno costruito, decennio dopo decennio, un sistema che succhia l’energia e il potere economico da ogni altro membro della società». Al dicastero di Produzione e Ambiente c'è Panayotis Lafazanis, leader di “Piattaforma di sinistra”, la principale minoranza interna di Syriza. Una donna, Zoi Constantopoulou, è stata nominata presidente del Parlamento.
Nel primo Consiglio dei ministri è stato varato l’innalzamento del salario minimo, passato da 450 a 751 euro lordi; il riallaccio dell’utenza elettrica per 300mila morosi; la tredicesima per le pensioni più basse; la riapertura della televisione pubblica, il blocco della privatizzazione della Dei e della Admie (chieste dalla Troika); così come lo stop alla svendita del Porto Pireo ai cinesi.
Inoltre, in soli tre giorni, è terminata la cooperazione militare con Israele e l’embargo economico contro Gaza, è stato abolito il carcere duro e ci si è tirati indietro rispetto alle sanzioni alla Russia sul caso ucraino. Tutte eresie per questa Europa.
La commissione Ue ha ribadito di non voler cambiare linea sulla Grecia, dopo le elezioni «restano gli stessi impegni presi dal governo verso i cittadini europei e vanno rispettati». Sulla stessa lunghezza d’onda c'è il socialista Martin Schulz, presidente dell'Europarlamento. Un muro contro muro, per adesso. Con i socialisti che per ora non sembrano ascoltare i consigli dell’economista Thomas Piketty, il quale pochi giorni fa scriveva su Repubblica: «Nel quadro delle istituzioni europee esistenti, ingabbiate da criteri rigidi sul deficit e dalla regola dell’unanimità sulla fiscalità, è semplicemente impossibile portare avanti politiche di progresso sociale. Non basta lamentarsi di Berlino o di Bruxelles: bisogna proporre regole nuove. […] Impossibile una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro».
In questo ragionamento Piketty invitava i socialisti a seguire le orme di Tsipras per una battaglia comune. Non sembra così malgrado Syriza si dica, ad oggi, disponibile al dialogo. Ma non ai diktat. E Matteo Renzi con chi sta? Qualche media italiano ha parlato di “sintonia” tra i due leader. Qualcuno li ha paragonati per il desiderio di discontinuità che hanno incarnato. Chissà. Finora i proclami contro l'austerità di Renzi non si sono trasformati in fatti concreti; mentre il semestre europeo a guida italiana e già finito nel dimenticatoio, visto che nessuno ne ricorda una benché minima traccia.
Mentre Tsipras ha un asso nella manica che spera di sfoderare il prossimo autunno – sperando intanto di trovare i soldi per andare avanti in questi mesi, visto che le casse dello Stato sono vuote – e che si chiama Podemos. Il partito spagnolo con cui si è legato a doppio filo e che, secondo i sondaggi, ad oggi sarebbe il più votato. Minacciare la Grecia, terra di cicale e vagabondi che non vogliono pagare un debito in parte frutto della speculazione finanziaria, finora è stato relativamente facile. Ma se ad Atene aggiungi Madrid, allora davvero l'Europa rischia la fortuna di cambiare verso.
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