global project- marco rigamo
29 / 1 / 2015
E’ lungo 15 pagine il testo della sentenza di Torino e come sempre si dice “bisogna attendere le motivazioni”. Per ora immensa rabbia e massimo sdegno per una sentenza che manda assolti solo 6 imputati su 53 e seppellisce tutti gli altri sotto 142 anni di carcere. Con pene che partono da due mesi, ma per la maggior parte superano i tre anni e per nove posizioni superano i quattro. Un processo condotto in un clima e in una logica di guerra, connotato da una sistematica penalizzazione delle istanze difensive e da intimidazioni ripetute nei confronti del pubblico.
Condanne esemplari nel senso più classico del termine, nella presunzione di confezionare un dispositivo di deterrenza in grado di influire sui futuri percorsi di azione diretta che la Val di Susa comunque indicherà: agli abitanti, agli attivisti, a tutti coloro che nella lotta contro la TAV - ora anche in ragione di questa sentenza - colgono uno snodo strategico nelle dinamiche del conflitto sociale che anima questo come numerosi altri quadranti di lotta sul suolo europeo. E che attraverso questo processo può mettere a valore un paio di considerazioni.
Lo spazio sottratto in questa occasione processuale ai diritti della difesa rende più evidente che mai l'elaborazione di strategie direttamente politiche in seno ai collegi giudicanti. La scelta della politica istituzionale di negare l'introduzione di qualsiasi norma volta a tutelare chi esercita conflitto sociale ha rafforzato nella magistratura la capacità di reinterpretare i meccanismi giuridici repressivi in funzione di sostegno del comando. In questo caso, oltre che all’enormità delle pene irrogate, va prestata attenzione al tema del concorso, qui dilatato oltre ogni estensione compatibile con la norma penale vigente. Quel meccanismo, per stare nel concreto, che consente la condanna a tre anni per il barbiere di Bussoleno accusato di avere tirato una pietra da cinquanta metri: con quel lancio “paga” otto poliziotti feriti, colpiti evidentemente da altre pietre tirate da altri soggetti. Sarà interessante nelle motivazioni della sentenza verificare l'affrontamento delle responsabilità individuali, dato che fino a ieri il nostro Codice recitava che “la responsabilità penale è personale”. Nella negazione del dato politico della condotta antagonista si fa così piazza pulita del principio della proporzionalità tra pena e condotta illecita, al punto che il comportamento conflittuale diffuso - le cui ragioni politiche non hanno diritto di cittadinanza nel processo - sembra venire a costituire un’aggravante specifica, ancorché (almeno per ora) impossibile da contestare formalmente.
Una magistratura che sempre più apertamente agisce con due facce e due velocità crea a Torino il precedente di una valanga di provvisionali per tutte le parti civili costituite in giudizio. Dai singoli agenti feriti a tutti i sindacati di polizia, ai ministeri dell’Interno, della Difesa e dell'Economia. Non si tratta “solo” di quasi duecentomila euro da risarcire oltre alle spese processuali, né solo di conferire valore simbolico a uno scontro che contrappone da una parte una minoranza in anacronistico e violento conflitto contro la modernità e dall’altra un apparato statuale compattamente rappresentato nella tutela paradossale di una migliore qualità della vita. Nelle provvisionali ai poliziotti e ai sindacati di polizia, nel loro riconoscerli soggetto “danneggiato”, va colto un importante punto da questi segnato in una partita che va avanti da anni e ha le sue radici nelle giornate del G8 di Genova 2001.
Giocata non solo sul rafforzamento del salvacondotto giudiziario non scritto da sempre in vigore per le nostre quattro polizie. Ma anche e soprattutto sulla determinazione a maggiormente orientare lo spirito di corpo verso coordinate di vita propria, forza vitale autonoma e decisiva, dotata di proprio potere decisionale distinguendosi dalle chiavi di consegna della politica, con la stessa interagendo in formacorporativa. Quella che nell'applauso del Sap ai torturatori di Aldro rivendica la propria massima autonomia comportamentale. Quella che nel processo in corso a Padova per i fatti del 14 novembre 2012 ottiene che sotto processo non siano funzionari e poliziotti immortalati in video e identificabili grazie all'audio “appena arrivano caricateli, dio boia”, ma una manciata di attivisti manganellati a freddo. In ciò trovando con la magistratura una saldatura assolutamente analoga a quella che si è messa in evidenza nell'aula bunker di Torino - pesantissime le pene richieste anche a Padova dalla pubblica accusa - e con ciò consigliando la massima vigilanza anche su questo procedimento giudiziario.
Questo quadro va così inevitabilmente riferito all’agire dei movimenti. E’ impossibile disgiungere la portata della sentenza di Torino dai passi che ancora restano da fare a tutela delle pratiche del conflittonella misura in cui contro di esse si rafforza una saldatura tra polizie e magistratura. Vanno incentivate iniziative che riguardino la rimessa in equilibrio delle parti all’interno del processo penale, restituendo pari dignità alla versione fornita dal cittadino contro quella del poliziotto. Va ridato fiato a una campagna che torni sulla resa in trasparenza di norme certe sull'uso delle armi in mano alle nostre polizie, sulle regole di ingaggio, sugli identificativi delle divise, sull'introduzione del reato di tortura, sull'inderogabilità di un'amnistia. Va prestata rinnovata attenzione alle dinamiche che governano il dialogo tra corporativismo poliziesco, potere giudiziario e agire dell’esecutivo. E' ancora una volta sul tema dei diritti che si conferma il terreno dello scontro.
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