mercoledì 28 gennaio 2015

La "parola contraria" di Erri De Luca: “Chi dissente è un sovversivo, si può solo obbedire".


Il 28 gennaio a Torino lo scrittore napoletano dovrà rispondere di istigazione al sabotaggio a favore della protesta No Tav in Val di Susa. Ma non ci sta a passare da vittima e con il suo pamphlet appena stampato passa al contrattacco: “In ballo c’è la libertà d’espressione”.

L'Espresso Michele Sasso
"La Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo, sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile... hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa».

A causa di queste parole lo scrittore napoletano Erri De Luca finisce direttamente sotto accusa.
Il 28 gennaio a Torino dovrà rispondere di istigazione al sabotaggio a favore della protesta No Tav in Val di Susa. Un simbolo di libertà di parola che diventata imputato.
E da imputato in un aula di giustizia italiana si trasforma in accusatore. Ribaltando la tesi della società che costruisce la linea ad alta velocità e chiede di mettere il silenziatore ad ogni parola contraria come la sua.
Per mettere in fila i fatti occorre partire da tre parole: censura, cesoie e contraria. La prima come una voce smorzata in gola per chi come mestiere ha scelto di fare lo scrittore e ha in sorte una piccola voce pubblica. Controcorrente.


Una voce lontana dal sentire comune, dall’opinione pubblica distratta che pensa che in una piccola valle del Nord Italia sia in atto una battaglia tra violenti anti-modernità e lo Stato che difende se stesso e le sue scelte. Diventato nel frattempo un laboratorio di tutte le sigle antagoniste e sovversive.

Le cesoie dei manifestanti che tagliano le reti per entrare nei cantieri della Torino-Lione, passando dalle idee all’azione, superando la sottile linea rossa della legalità.

E poi contraria, come la parola potente e solitaria di De Luca, che decide di farne il suo pamphlet (La parola contraria, Feltrinelli, pagine 62) per difendersi attraverso i suoi scritti dalle accuse della Procura di Torino.

Per Erri De Luca in ballo c’è la libertà d’espressione, l’istigazione al sabotaggio e la difesa di un diritto costituzionale schiacciato da un reato campato per aria, senza successione di eventi tra parole e azioni.


Ecco la sua personale ricostruzione.

Lei parte da George Orwell e il suo Omaggio alla Catalogna passando per Pier Paolo Pasolini e arriva alla morte dell’anarchico Pinelli per raccontare cosa spinge un giovane oggi a stare da parte della protesta in Val di Susa. Ribadendo che vorrebbe essere l’innesco di quella sete di giustizia. Cosa rappresenta per lei la giustizia?
«La giustizia è il primo sentimento indipendente che si forma nella coscienza di un bambino. La sua prima obiezione al mondo degli adulti è “non è giusto”. Stabilito che si tratta di un sentimento, io l'ho appreso a Napoli, accanto alla più alta mortalità infantile di Europa, al lavoro minorile. Ho saputo presto che il mondo era dispari. Il sentimento di giustizia spinge a rispondere, a reagirci contro. È perciò un sentimento politico».

C’è un'Italia assetata di quei diritti, naturalmente allergica alle ruberie e alle mafie che si scontra con il pensiero unico delle grandi opere?
«Non una Italia, ma l’Italia del pianoterra, di base, del volontariato, della disciplina, l'Italia è un grande quartiere Scampia che non si fa schiacciare da una minoranza di banditi. Le grandi opere? Quelle che permettono di interrare rifiuti tossici sotto le autostrade? Lo Stato ha smesso ogni legittimità per presentarsi ai cittadini con le sue grandi opere. Oltre settecento di esse sono rimaste incompiute cioè inutili all'uso ma utilissime a distribuire denaro pubblico agli amici. Si paga ancora l'invisibile ponte sullo Stretto».

Nel suo libro lei sostiene che in Val di Susa è in atto uno stupro del territorio, una speculazione dichiarata e una intensa e durevole lotta di prevenzione popolare. Ma il messaggio che passa è un gruppo di violenti che si oppone alla costruzione di una linea veloce. Come si smonta questa visione?
«La diffamazione a mezzo stampa di un grande movimento di opposizione, di una comunità oppressa, si spiega con la miseria dell’informazione in Italia. I giornalisti del nostro paese non sono i professionisti dell'informazione, ma gli impiegati di imprese industriali che si comportano secondo le direttive del consiglio di amministrazione.
Ma tutte le informazioni giuste sono in rete a disposizione di chi ha volontà e coscienza di conoscere. E non faccio il profeta a constatare che la Tav in Val di Susa non si farà. Non è alta velocità, risparmierebbe solo un'ora sulla tratta Torino-Lione. Non risponde a una richiesta di mercato: la linea esistente è utilizzata solo al 17 per cento delle sue possibilità. Ma principalmente va a perforare rocce cariche di amianto e di pechblenda, materiale radioattivo. La Val di Susa si batte per legittima difesa e perché non ha una valle di ricambio».

Chi manifesta il proprio dissenso è un eversore?
«Chi dissente è un sovversivo, l'ordine è l'obbedienza. Quando si dichiara che un'area è strategica, la si vuole sottrarre al dissenso. Ma le lotte civili hanno dimostrato di poter vincere contro grandi prepotenze. Al cinema le applaudiamo, nella realtà non le riconosciamo e le prendiamo per buone quando è tardi. La Val di Susa non vuole piangere i suoi morti e fa una commovente lotta di prevenzione degli infortuni e del disastro ambientale».

Due eventi contrastanti: la pista No Tav per i roghi alla ferrovia di Bologna prima di Natale e l’accusa di terrorismo caduta per i quattro manifestanti, come li interpreta?
«I roghi sulla linea di Bologna c’entrano con la lotta della Val di Susa come la sella su un pesce. La delirante accusa di terrorismo a chi aveva danneggiato un compressore è caduta, non nel ridicolo ma nel tragico perché nel frattempo quelle persone hanno passato più di un anno in detenzione speciale di isolamento».

La campagna “Un’altra difesa è possibile”, letture pacifiche, la raccolta di fondi e firme da Milano a Napoli, fino a Berlino passando per Grenoble. È diventato un simbolo di lotta dal basso?
«Forse mi sbaglio ma non conosco esempio di un altro scrittore incriminato per le sue frasi e difeso dai suoi lettori con letture pubbliche delle sue pagine. Queste manifestazioni sono la mia difesa, alle quali posso aggiungere solo grazie. Non io, ma il mio caso giudiziario stabilisce un appuntamento tra la libertà di espressione e la sua negazione».

Nella battaglia sul referendum dell’acqua pubblica ha risposto alle domande de “l’Espresso” sul tema etica e diritti civili sostenendo che “Uno Stato che diventa azienda non garantisce più i diritti civili, ma eroga servizi a pagamento”. È un processo inarrestabile?
«È un processo arrestabile, ma dal basso. Oggi l'ordine del giorno riguarda la integrità fisica dei cittadini minacciata dall'affarismo intrecciato al pubblico potere: dall’Ilva di Taranto al tunnel di Chiomonte il potere se ne infischia della incolumità dei cittadini degradati a sudditi di feudo. La Val di Susa inverte la tendenza, la contrasta e la farà ritirare. Questo vuol dire che la lotta di quella comunità è, adesso ci vuole la parola, strategica».

La Val di Susa è il laboratorio di una nuova economia aziendale per schiacciare il dissenso e la critica con ogni mezzo?
«La Val di Susa è la pietra d'inciampo di un potere senza scrupoli. La Procura di Torino ha prodotto in questi ultimi anni più di mille incriminazioni contro i suoi cittadini, il fatturato della volontà di repressione di un grande movimento civile. Inutilmente: perché la loro concordia e le loro ragioni hanno già vinto».

Cosa succederà il 28 gennaio?
«In quell’aula si inizierà il processo alle mie parole messe tra virgolette come capo d'accusa e già in manette. Fuori da quell’aula ci sarà la libertà di parola e la sorveglianza della stampa estera. Il libretto "La parola contraria" è uscito in contemporanea in Francia, Germania, Spagna. Fuori dalle nostre botteghe l’accusa contro le parole di uno scrittore suonano bestemmia».

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