dinamopress Alioscia Castronovo
Una intervista agli operai della fabbrica recuperata Özgür Kazova, che si trova oggi di fronte ad un pesante attacco. Martedì 27 è infatti prevista la sentenza definitiva sul possesso dei macchinari, mentre già da lunedì sera è stato lanciato un presidio davanti alla fabbrica.
La Ozgur Kazova è la storia di un gruppo di uomini e donne, operai di una fabbrica tessile e lavoratori precari, che ha fatto della solidarietà e dell’autogestione una concreta sperimentazione, per costruire una risposta collettiva ed innovativa alla crisi, all’autoritarismo e all’assenza di libertà. Vengono da quasi due anni di resistenza, di conflitto, che li ha portati dal licenziamento fino all’occupazione della fabbrica, poi alla vittoria sui macchinari e alla decisione comune di sperimentare una produzione senza padrone. Ma oggi questa possibilità è di nuovo sotto attacco: martedì infatti il giudice stabilirà se i macchinari rimarranno agli operai oppure finiranno all’asta. Dopo 23 mesi di resistenza e autogestione, e gli sgomberi di tre spazi occupati dopo il movimento di Gezi, la questione dei macchinari della Kazova rappresenta una battaglia di tutti quelli che resistono alla repressione e all’autoritarismo del governo. Per questo al presidio di lunedì sono invitati i forum di quartiere nati dalla mobilitazione di Gezi e le realtà di movimento di Istanbul, per difendere la proprietà comune dei mezzi di produzione.
Li incontriamo ad Istanbul, durante la due giorni di dibattiti organizzati tra le reti transnazionali di Agora 99 e le esperienze di lotta del movimento ad Istanbul, tra cui gli operai della Kazova Libera, presso lo spazio occupato Caferaga di Kadikoi (successivamente all’incontro lo spazio è stato poi sgomberato, poche settimane fa) e con loro ci dirigiamo alla fabbrica, al centro di uno storico distretto tessile di Istanbul. Appena arrivati ci mostrano con orgoglio i macchinari, riattivati dagli operai stessi, ottenuti dopo una lunga e difficile lotta, in cui sono stati proprio i movimenti di Gezi, rispetto a sindacati e partiti, la componente sociale che li ha sostenuti più da vicino.
“La nostra occupazione vera e propria - per i primi mesi ci eravamo limitati alle proteste – è cominciata nelle settimane di Gezi. Il supporto dei forum, inizialmente dei movimenti che si riunivano nel quartiere in cui si trovava la vecchia fabbrica, è stato molto importante. Il che non era scontato, perché non tutti gli operai della fabbrica facevano parte attiva di qualche movimento di sinistra.” Ci raccontano gli operai, durante una pausa dal lavoro, seduti in circolo tra i macchinari tessili, riattivati per la produzione dei maglioni senza padrone.
Ripercorriamo con loro i diversi momenti del conflitto operaio e della mobilitazione di Gezi. “Nella prima fase della nostra occupazione, il fatto che fosse un momento di mobilitazione, e che dopo Gezi questa mobilitazione si sia decentrata in tante realtà locali ci ha dato visibilità - per esempio organizzando sfilate e feste di quartiere. Dato che la Kazova occupata è rimasta a macchine ferme per più di un anno, e che la produzione di maglioni è partita soltanto nel Novembre 2014, i rapporti non sono sempre stati continui - i movimenti hanno seguito il loro percorso di alti e bassi e riorganizzazione, così come noi seguivamo il nostro".
In questi ultimi mesi, a partire dallo scorso novembre, è ripartita la produzione da parte della cooperativa Ozgur Kazova dopo quasi due anni di inattività. “E’ sui comitati resistenti di quartiere e i gruppi autorganizzati di precari che possiamo contare. Per esempio abbiamo appena chiuso una campagna di vendite solidali in collaborazione con la casa occupata del quartiere di Caferaga. Ci servivano 15mila lire turche (quasi 5 mila euro) per pagare le tasse sui macchinari ("sottratti dagli operai al padrone quando questi ha deciso di chiudere la Kazova), perche' qui in Turchia le leggi sul tessile funzionano cosi'. Da Caferaga e' arrivata la proposta di una campagna per acquistare i nostri maglioni da distribuire poi sia alle migliaia di siriani senzatetto di Istanbul - l'inverno di Istanbul e' estremamente rigido - che da mandare alle famiglie di Kobane attualmente dislocate a Suruc.” Una campagna di acquisto solidale che si è poi estesa all’Italia con la campagna “Maglione senza padrone” e che rappresenta una prima esperienza di sostegno concreto agli operai della fabbrica autogestita.
Le difficoltà attraversano la quotidianità della vita della cooperativa, ma la forza di superarle è legata alla capacità collettiva di organizzarsi, a partire dalle pratiche di solidarietà e mutualismo che ridefiniscono relazioni sociali e costruiscono possibilità reali di trasformazione sociale. Come per tutte le altre esperienze simili, che pur con difficoltà stanno nascendo in diversi paesi euro-mediterranei, fra fronte alle spese e distribuire i prodotti rappresenta un passaggio per nulla scontato. Anche in questo caso, la solidarietà e il mutuo sostegno all’interno dei movimenti sono decisivi. “Per adesso la la questione centrale è la sopravvivenza dell’esperimento - che non è ancora affatto scontata. Non abbiamo alcun esempio su cui basarci; se la Ozgur Kazova sopravvive, sarà la prima cooperativa tessile in Turchia. Stiamo cercando di creare un precedente con i primi "maglioni senza padrone", nati proprio da una fabbrica che vendeva un singolo maglione a 150 euro, e pagava gli operai - che ne producevano migliaia al giorno con orari massacranti - 450 euro al mese. Noi li produciamo uguali, li vendiamo a meno e dividiamo equamente i proventi. Quindi è ancora tutto in divenire. Non sappiamo ancora come assicurarci la lana per la nuova produzione, per non parlare di affitto ed elettricità; ci vorranno mesi prima che le vendite, e la copertura delle spese, ci permettano di guadagnare qualcosa in più da ridistribuire fra gli operai per provvedere alle proprie famiglie e solo allora potremo porci il problema della gestione dei profitti.”
Non solo la gestione e la sopravvivenza quotidiana, ma anche ostacoli legali, ci raccontano gli operai: “Non è ancora chiaro se, e come, sia possibile registrare ufficialmente una cooperativa tessile in Turchia e quindi ottenere il permesso di vendere ufficialmente i nostri prodotti. Una cosa va chiarita: siamo una fabbrica, la nostra politica è la nostra produzione. Quindi siamo vincolati a problemi strettamente pratici e parlare del futuro, per adesso, significa accontentarsi di cercare soluzioni pratiche. Certo, questo non vuol dire che non abbiamo grandi progetti sul modello di produzione e ridistribuzione al quale stiamo lavorando; ma in una fase di assoluta vulnerabilità come questa, hai persino paura a parlarne!”. Possiamo cogliere nei loro sguardi la determinazione di chi sta costruendo con la lotta una possibilità di sopravvivenza, ma anche di trasformazione, di autonomia.
“La speranza è che una volta assicurata una giusta retribuzione, un eventuale assestamento economico ci permetta di aumentare la produzione e quindi "riscattare" altri lavoratori, sottrarli allo sfruttamento del tessile turco perché anche loro diventino padroni del proprio lavoro e del proprio potere decisionale. Lo scopo è di allargare la cerchia dei senza padrone, far vedere che il nostro modello funziona, spingere altri verso la lotta e l’autogestione.” Continuano, raccontando a turno, speranze, emozioni, sfide politiche e organizzative della cooperativa. Per poter produrre prodotti di qualità, autogestendo il proprio lavoro, senza specularci sopra, come avveniva durante la precedente produzione.
Gli operai si interrogano su cosa e come produrre: “Vogliamo continuare a produrre maglioni della stessa qualità di quando eravamo ancora sotto un padrone, anzi meglio. Ma farlo a prezzi per cui è la gente come noi a comprarli e apprezzare il nostro lavoro. Si tratta di entrare nei circuiti del mercato per sabotarli dall'interno per dare visibilità al lavoro senza padrone. Ovviamente le difficoltà non sono poche. Per esempio, noi vorremmo che i nostri maglioni avessero un prezzo equo, che non superi i trenta euro. Ma la mera produzione di un capo, esclusa la manodopera, costa almeno 20 euro se non di più fra lana organica, trattamento del capo, elettricità per la filatura, e affitto della fabbrica. Saremo anche lavoratori liberi fra le quattro mura della nostra fabbrica, ma le leggi del capitalismo ci costringono a confrontarci con queste spese. Un modo per riuscire a coprire le spese di distribuzione e di manodopera con i prezzi che ci siamo prefissi potrebbe essere quello di creare un circuito solidale fra cooperative e fabbriche occupate per le materie prime, secondo un modello basato sulla cooperazione piuttosto che la competizione. Per esempio stiamo cercando il contatto con realtà simili alla nostra in Bangladesh.”
L’autogestione produttiva è una sfida, difficile e complessa, attorno alla riorganizzazione della produzione, al rifornimento di materie prime, alla gestione del lavoro in condizioni di estrema precarietà. Ma la forza di queste esperienze deriva dal desiderio, dai processidi soggettiovazione che trasformano chi vive e attraversa ed incontra tali esperienze, con la volontà di costruire relazioni sociali e di lavoro che rompano il ricatto capitalistico e aprano nuovi spazi di libertà.
Non si può non pensare alle esperienze argentine, venezuelane, fino alle nuove fabbriche recuperate che in Europa si stanno affermando, come un precedente importante, uno stimolo a continuare, individuando in queste fabbriche recuperate pratiche riproducibili da cui trarre forza e con cui entrare in connessione. La discussione torna però ad affrontare le sfide quotidiane che la Ozgur Kazova si trova a fronteggiare: la distribuzione dei prodotti rappresenta infatti un altro elemento cruciale per la continuità e la sopravvivenza della fabbrica tessile senza padrone. “Noi vogliamo che i nostri maglioni entrino nel mercato per lanciare un messaggio. L'intento è come dire, sovversivo. Ma come assicurarsi che i rivenditori non alzino il prezzo? Lo stesso marchio Kazova potrebbe facilmente diventare un brand se non stiamo attenti che il mercato non trasformi i maglioni di una fabbrica occupata in una moda da acquistare a qualsiasi prezzo. Già durante la campagna di solidarietà col forum di Caferaga ci è capitato che ci venissero offerti più soldi dei venti euro che chiedevamo. Certo, l'offerta era mossa dalle migliori intenzioni; ma i soldi in più sarebbero arrivati soltanto perché la produzione veniva da una fabbrica occupata - non per il prodotto in se'. Pagare più del valore di un maglione contraddice il principio stesso in base al quale vogliamo produrre”.
Assieme agli operai che resistono in lotta da ormai quasi due anni, alcuni lavoratori precari e autonomi hanno sostenuto, a partire dalle iniziative di solidarietà, la cooperativa, entrandone a far parte quando la produzione è ricominciata. “Al momento”, ci dicono dopo un giro di chai, “dopo due anni di lotta, sono rimasti soltanto quattro degli operai originari della Kazova. Con loro ci sono i macchinari occupati e sottratti al padrone della Kazova. A questi quattro si sono aggiunti altri compagni di avventura; chi da' una mano a cucire, chi si occupa di disegnare i modelli, chi aiuta con la contabilità e mille altre questioni pratiche. Come impegno quotidiano, ormai siamo almeno otto. In più ci sono altri compagni provenienti dai movimenti del precariato dei colletti bianchi, come lo chiamiamo noi - architetti, designers, e così via, che ci danno una mano con la questione delle vendite e della distribuzione oltre che nel design delle etichette, degli stand per la vendita, dei contatti con le cooperative estere. L'organizzazione è piuttosto spontanea, e legata a quelle che sono le competenze e soprattutto la disponibilità di tempo. Chi stava alle macchine per filare, piuttosto che alle cuciture, gravita di più intorno alle macchine. Due anni di lotte insieme hanno creato legami molto forti; nessuno lascerebbe l'altro da solo. Si passano le giornate in fabbrica dalle nove di mattina alle otto di sera per aiutarsi in un'impresa comune e stare insieme, non per timbrare un cartellino; questo vuol dire che tutti sono disposti a fare tutto. Ciascuno scopre le proprie capacità ed energie nell'assumersi la responsabilità degli altri. Una volta che ti scopri soggetto lavoratore senza un padrone, non puoi più farne a meno; finisce che lavoreresti più di prima” concludono sorridendo.
Oltre a lavorare in comune, si organizza assieme alle reti di solidarietà, agli spazi sociali e ai movimenti una discussione continuativa: almeno una volta alla settimana si tengono assemblee fra chi lavora al progetto di distribuzione, chi si occupa delle questioni burocratiche, chi della produzione. “Le riunioni sono aperte, finisce che al tavolo con noi si siede a dire la sua davvero chiunque, dai nonnini venuti a portare cibo e sigarette fino all'elettricista o agli studenti venuti a curiosare - e poi tornano a trovarci”.
La priorità adesso è difendere l’uso dei macchinari che la magistratura vorrebbe togliere agli operai che legittimamente se ne sono appropriati: quei macchinari che hanno reso possibile in questi primi tre mesi di produzione la “collezione” maglioni senza padrone. “In questui tre mesi abbiamo prodotto sei nuovi modelli, tre maschili e tre femminili. Abbiamo un'ultima riserva di lana "occupata", che ci basta per produrre circa trecento capi, la cui vendita permetterebbe di acquistare i filati per produrre i prossimi mesi. Ma le prospettive di distribuzione al momento sono limitate dall'assenza di permessi ufficiali, oltre che dai limiti dei filati che abbiamo ancora in magazzino. La nostra speranza è che i movimenti, sia turchi che europei, ci aiutino a vendere questa prima mandata di invernale.” Una distribuzione che innanzitutto lavora sulle relazioni solidali e mutualistiche che il movimento di Gezi ha creato nella città di Istanbul, ridisegnando un territorio frammentato innervandolo di nuovi flussi, relazioni, resistenze e connessioni solidali. Infatti in queste settimane decine di attivisti sono impegnati nella creazione di un circuito di vendita fra i mercati di quartiere, in cui sono già presenti cooperative autorganizzate di produttori agricoli.
E’ oggi necessaria la solidarietà e il sostegno da parte dei movimenti, con la tensione a difendere con la lotta questa esperienza, e al tempo stesso a riprodurle, rafforzardo intanto le connessioni tra lotte simili che da Marsiglia a Roma, da Milano a Salonicco in questi ultimi due anni, pur tra mille difficoltà, stanno indicando una strada possibile, quella del lavoro cooperativo senza padroni.
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