venerdì 18 aprile 2014

Cultura, ecco perché affonda la nostra 'grande bellezza'.

Centinaia di dirigenti e migliaia di funzionari. Che non sanno sbloccare soldi o fermare il cemento. La macchina dei Beni Culturali non funziona. E ora Renzi vuole tagliare tutto. Per risparmiare 71 milioni di euro l'anno.

L'Espresso di Francesca Sironi

Cultura, ecco perché affonda la nostra 'grande bellezza'













Matteo Renzi non ha mai amato i custodi del patrimonio artistico italiano: «La cultura è in mano a una struttura ottocentesca», aveva detto da neo segretario del Partito Democratico. «Soprintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia», ha scritto nel suo “Stil Novo”. Detto fatto, allora, alla renziana: il 28 febbraio il premier, in uno dei suoi primi Consigli del ministri, ha messo mano alla macchina del ministero per i Beni Culturali (Mibac), seppure seguendo per ora i tagli già previsti da Letta.

A soli quattro giorni dal voto di fiducia, il governo ha così approvato il ridimensionamento di cinque direzioni regionali su 17, ha preannunciato la soppressione di altri 32 posti di vertice e preparato la lettera d’addio per 2285 dipendenti, fra vigilanti, funzionari e segretarie. Così prevede di risparmiare 71 milioni di euro all’anno. Con un altro taglio alla tutela del nostro tesoro. Che, però, questa volta punta dritto al cuore della macchina burocratica chiamata a tutelarlo, indispensabile quanto elefantiaca e spesso inefficiente.

Renzi attacca i Gran Commis delle Belle Arti: 190 dirigenti, oltre quattromila tecnici, ventimila dipendenti, senza contare la - a sua volta ipertrofica - Sicilia. Un esercito destinato a un compito immane, viste le dimensioni e la portata del nostro patrimonio, fatto di opere d’arte come di scavi archeologici, di castelli e reggie, di manoscritti e volumi preziosi, fino agli archivi dove è conservata la nostra memoria. Ma nei fatti l’armata della tutela sembra oggi impantanata nelle sue stesse regole, travolta da fiumi di carta mentre Pompei crolla, Caserta traballa e Sibari affoga. E persino l’armonia leopardiana dell’ermo colle potrebbe venire ferita da un resort a cinque stelle.
Sibari sepolta dal fango
Sibari sepolta dal fango

La struttura sarà anche pingue, ma è paralizzata. Dalla mancanza di fondi, sì, ma anche di capacità. Troppo spesso i funzionari non sono in grado di svolgere come si deve le richieste di base: dallo scrivere un ricorso al Tar, ad esempio, per impedire di cementificare uno scorcio magnifico, al mettere insieme la pratiche giuste per trovare i soldi e far iniziare un restauro. Nei meravigliosi palazzi dove i guardiani delle belle arti vivono seppelliti dalle carte, si trovano così più segretari che architetti, più custodi che archeologi. E poi c’è il gigante centrale, il moloch romano che impiega più di 4000 persone attorno a una cinquantina tra soprintendenze, direzioni generali e altre poltrone di riguardo. Un fiume di persone e di stipendi che prosciugano di fatto i denari del Mibac. Tutto questo, com’è ovvio, inceppa la macchina. Ecco come.
Il colle dell'infinito di Leopardi
Il colle dell'infinito di Leopardi


I numeri del declino. Il portafoglio vuoto è una certezza per i tecnici della storia: i finanziamenti per la manutenzione ordinaria di opere e monumenti sono passati dagli oltre 201 milioni del 2002 ai 70,5 del 2012. I soldi per le emergenze da 65 (2008) a 37. Il miliardo e mezzo di euro che arriva in totale al ministero delle meraviglie (erano più di due sei anni fa), finisce così in gran parte a pagare gli stessi dipendenti, scrive la Corte dei Conti. E neanche basta: nel 2011 il Mibac ha accumulato 20,9 milioni di euro di debiti solo per saldare affitti, bollette e benzina.

È un esercito povero, insomma, quello dei difensori del patrimonio. Ma anche mal armato. Se sulla collina dell’Infinito di Leopardi oggi non si costruirà un country-club, ad esempio, non sarà merito della soprintendenza. Ma del fatto che la proprietaria del casale ha promesso di costruire “solo” un parcheggio interrato. Mentre Tar e Consiglio di Stato avevano bocciato per ben due volte i supervisori statali, sostenendo che le loro motivazioni contro il progetto della nobildonna erano «sfuggenti». Bisogna saperli fare i ricorsi: «La nostra attività di tutela non deve solo finire sui giornali», commenta Ugo Soragni, direttore dei Beni Culturali del Veneto: «Deve resistere nel tempo. Deve riuscire a superare l’esame dei giudici amministrativi».

I difensori dei monumenti dovrebbero poi saper gestire bandi e gare d’appalto. Ma anche questa è una capacità che manca spesso negli arti periferici del golem: tanto che secondo la Corte dei Conti alla fine del 2012 dormivano in cassaforte 500 milioni di euro. Soldi fermi perché gli uffici provinciali non erano stati capaci di spenderli.«Finché continueremo a subire riforme - e ne abbiamo avute cinque in dieci anni - senza strumenti per far cambiare i nostri dipendenti, ogni promessa di rinnovamento sarà fasulla», sostiene Soragni. Ma per la formazione del personale vengono spesi sì e no 30mila euro all’anno. E nel 2013 la maggior parte di questi finanziamenti è servita a portare negli uffici in cui la contabilità era tenuta ancora a mano il nuovo brillante software della Ragioneria di Stato.
Il neo-ministro ai Beni Culturali e...
Il neo-ministro ai Beni Culturali e al Turismo Dario Franceschini

Roma caput mundi. Il neo ministro  Dario Franceschini ha deciso così di iniziare la cura dimagrante dimezzando lo stipendio e le funzioni di cinque direttori regionali: quelli di Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Marche, Umbria e Molise. Territori considerati sufficientemente piccoli per non aver bisogno di un capo ma solo di un coordinatore. E così il direttore si trova ridimensionato.

Il suo predecessore Massimo Bray forse non avrebbe cominciato da lì. Stando alla proposta di riforma dell’ex ministro, elaborata da 19 esperti e presentata nel dicembre scorso, la priorità sarebbe dovuta essere la tosatura delle poltrone romane. Che sono tante: sei archivi, altrettanti istituti centrali, nove soprintendenze, dieci Direzioni generali. Solo spostandone una negli uffici del ministero, tra affitti e utenze sono stati risparmiati 363mila euro, nota la Corte dei Conti. E alla Direzione delle antichità nazionali va il record nazionale di assenze: a gennaio i suoi 69 dipendenti hanno superato il 43 per cento di casalinghità.

Nel programma di risparmio del governo Renzi ci saranno poi i benefici delle mobilità del personale, secondo i piani già pubblicati due settimane fa da “l’Espresso”: quest’anno dovrebbero andarsene 351 persone, a cui corrisponderanno in teoria140 nuove assunzioni. Nel 2016 si arriverà a 752 addii per far posto a 601 ingressi. Con un rischio, che in burocratese si legge: «Si prevede, a decorrere dal primo gennaio 2018, un riequilibrio del personale a livello territoriale (Nord, Centro, Sud)». Ovvero, la possibilità di spostare gente dove c’è più bisogno.

Archivi fantasma. Ogni mattina una signora di 61 anni, laureata in scienze politiche, dipendente pubblica dal 1973, esce da casa sua a Sassari, prende il bus (pagando lei il biglietto: i soldi per i rimborsi sono finiti), attraversa la Sardegna e arriva a Nuoro, dove insieme a un solo custode tiene aperto l’Archivio di Stato della città. Anche di questo si occupano le soprintendenze: di mantenere la memoria di ogni atto, intervento e dettaglio di ogni ufficio statale di ogni pezzo di territorio. «Essendo un servizio pubblico, siamo costretti a tenerlo aperto tutti i giorni», spiega Maria Assunta Lorrai, direttore regionale dei Beni Culturali sardi: «È ovvio che io preferirei risparmiare, far andare fin lì la nostra archivista solo due giorni a settimana. Ma non posso farlo».

Se l’archivista di Nuoro è sola, in altre sedi ci si fa compagnia. Rieti, per esempio, provincia con qualche migliaio di residenti in meno di quella nuorese, ha 30 archivisti. Impossibile trovare una proporzione fra abitanti e dipendenti dei casellari ministeriali: Forlì, 392 mila anime, ha 13 archivisti di Stato. Teramo: 306 mila cittadini, 39 custodi. Cosenza, 714mila residenti e 85 addetti all’archivio. Torino, due milioni e 250mila abitanti, ma solo 54 guardiani della memoria.

Qui ci vuole un archeologo. Soprintendente ai beni archeologici della Calabria è Simonetta Bonomi,  la donna che ha riportato i Bronzi a Reggio (29 mila visitatori in due mesi) e che lotta per far scampare le rovine di Sibari dal naufragio. Non c’è ancora riuscita: per svuotare la palude in cui sprofonda la colonia greca è in funzione lo stesso macchinario da 40 anni. E ora c’è da combattere il mare che vuole portarsi via dei pezzi del tempio dorico di Kaulon. E sì che con 363 vigilanti, funzionari e segretarie solo per l’archeologia, la supervisione del territorio potrebbe essere capillare, costante, una manutenzione passo-passo che eviti disastri. Non è così. «Gli archeologi sono in tutto dodici», spiega Bonomi: «gli architetti tre, e di questi solo due hanno l’abilitazione professionale. Infine abbiamo 10 geometri», pochi, dice, per controllare undici sedi e tutte le rovine.
I Bronzi di Riace
I Bronzi di Riace

Il fatto, però, è che a riempire le giornate di architetti e geometri non sono tanto le meraviglie del territorio quanto i vincoli da far rispettare: ogni anno escono dai loro computer 223.327 provvedimenti, da quello per la grondaia del negoziante di Venezia alla maxi-speculazione edilizia sulle coste pugliesi. Piccoli e grandi lavori su cui i guardiani della bellezza dovrebbero dire la loro entro 45 giorni. E non ci riescono. Nonostante l’alacre scartoffiare, infatti, il cemento avanza, si mangia le colline amate da Catullo a Sirmione o gli orizzonti celebrati da Leopardi nelle Marche. Perché ai sindaci importerà anche del tramonto, ma a patto che non intralci lo sviluppo e il business. Ed ecco perché malsopportano spesso i supervisori di Stato. Pure se sono accondiscendenti: «Sulle 500 richieste che riceviamo ogni mese», commenta Andrea Alberti, soprintendente ai beni architettonici delle province di Brescia, Mantova e Cremona: «I nostri “no” sono solo il tre o il quattro per cento. Preferiamo proporre modifiche che bloccare i lavori». Magari i pasdaran della tutela protesteranno, ma l’edilizia va avanti.
Il degrado nella Reggia di Caserta
Il degrado nella Reggia di Caserta

Reggia autonoma. La linea morbida si impone nel paese. Ed è arrivata anche a Caserta. La Versailles italiana, travolta dai furti e dalle polemiche, è stata tolta dalle mani di Paola Raffaella David (ora spostata a Pisa) e data in gestione all’istrionico Fabrizio Vona, soprintendente speciale di Napoli. Vona - diventato celebre per l’orticello che si è costruito sulla terrazza della Certosa di San Martino - gestisce un ufficio autonomo, ovvero che può spendere solo quello che incassa, almeno secondo le regole. Da qui il suo obiettivo: fatturare il più possibile per garantire almeno qualche restauro.
Museo di Capodimonte
Museo di Capodimonte

Così ha già fatto per il Museo di Capodimonte, al centro di una testarda politica di promozione. E di affitti. Già: di affitti: «Per noi è l’unico modo per sopravvivere», spiega Vona, che negli ultimi anni ha dato il salone dei borboni ai manager della Bce, al Calendario Pirelli, al Rotary incassando 20mila euro a serata; che ha organizzato dj Set nei cortili e invitato i giocatori del Napoli a farsi fotografare davanti alle opere per fare pubblicità alle collezioni. «Siamo i cugini poveri d’Europa, dobbiamo arrangiarci», dice: «Il Prado ha 85 funzionari solo per i prestiti. Noi, due esperti per sette musei. Ormai mi sono abituato a mendicare: quando mandiamo un capolavoro all’estero in cambio non chiediamo una tela. Ma soldi per i restauri».
Uno dei guerrieri nuragici di Monte...
Uno dei guerrieri nuragici di Monte Prama

Vedi Cabras... Conclusione: è tutto da rottamare? No. Perché i tecnici capaci sono l’unica salvezza del patrimonio. E lo si riconosce arrivando a Treviso e scoprendo che la collezione di manifesti più importante d’Europa avrà finalmente un museo, serio. O a Cabras dove i millenari guerrieri nuragici alti più di due metri scoperti nel 1974, dopo anni di attese, ritardi e litigi saranno finalmente esposti al pubblico. O ancora a Campobasso dove il soprintendente Gino Famiglietti combatte ora contro le pale eoliche autorizzate dal suo predecessore. Tutto possibile grazie ai custodi della bellezza. Che quando hanno le armi, sanno come fare.

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