L’oblio sulla questione ILVA e il dramma di una città depredata dalla
politica regionale e nazionale, ansiosa di proteggere la produzione
dell’acciaio e il profitto di un singolo: Taranto è il danno collaterale
dell’Italia.
micromega di Antonia Battaglia
Ci sono due
opere del filosofo Zygmunt Baumann, “Il mondo liquido” e “Danni
Collaterali”, che sono, a mio avviso, fondamentali per capire le sfide
portentose che la politica italiana ed europea sta affrontando in questo
momento storico, che vede contrapporsi drammi sociali molto ampi e
risposte governative molto deboli. Taranto,ancora una volta, ne è il
banco di prova.
Quando si parla di società, se ne misura la
qualità complessiva in base al livello medio delle parti che la
compongono: si studiano reddito, standard di vita, longevità, condizioni
sociali. Ma queste misurazioni prendono in considerazione molto
difficilmente la differenza che intercorre tra le sue parti opposte, tra
le parti più distanti tra di loro: la diseguaglianza, infatti, viene
percepita in termini prettamente economici, senza considerare le
conseguenze ed i rischi che le differenze sociali comportano su tutti
gli aspetti della esistenza umana.
Il premio nobel per
l’economia Amartya Sen scriveva, già nel 1998, che non è possibile
basare sulla felicità (intesa in senso utilitaristico) una teoria etica
(pensiamo a Bentham) che consacri come assoluta una visione ristretta
del benessere umano, costruita su considerazioni e valutazioni
esclusivamente individuali. Perché le valutazioni in merito alla
felicità sono soggette a effetti di adattamento, aspettativa, a
circostanze molto diverse che possono portare a trarre conclusioni
politico-economiche e sociali distanti dalla realtà alla quale tali
conclusioni devono applicarsi. Il tema che affronta Sen è noto come “la
questione dello schiavo felice”: una persona molto svantaggiata dal
punto di vista sociale potrà dirsi ad un certo momento della propria
vita felice della propria sorte, meno drammatica di quella di altri, ma
certamente non tanto positiva da essere presa a modello politico.
Gli
indicatori dello stato di una società non possono basarsi
esclusivamente sulla metrica utilitaristica, perché le grandi incertezze
dei contesti sociali contemporanei rendono impossibile il successo di
un modello che ponga al centro della vita collettiva un’ idea di
continuo adeguamento per la sopravvivenza, attraverso il quale si
possano giustificare distorsioni e politiche di deprivazione, che
sacrifichino l’individuo al benessere generale.
La “vita buona” di Aristotele misurava l’esistenza umana in base
alle sue qualità, anche etiche e morali, e non in base ad indicatori del
benessere prettamente economico: la riduzione della valutazione di una
società al solo aspetto del suo PIL non può, per forza di cose, che
fallire. L’obiettivo primario di una collettività non dovrebbe essere
indirizzato alla realizzazione della felicità del segmento più favorito
dal punto di vista delle condizioni economico-sociali di partenza,
piuttosto dovrebbe tendere a ridurre gli ostacoli sociali di fondo che
impediscono la crescita omogenea. Il rilancio dell’economia dovrebbe
essere basato su una azione di sviluppo di un benessere collettivo
comprensivo dei valori della salute fisica, di quella mentale, della
qualità della vita quotidiana, dell’ambiente, del grado di
partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Anche da questo
punto di vista, Taranto è “all’avanguardia” perché rappresenta
l’incarnazione estrema della deriva di una politica il cui solo
obiettivo pare essere quello di voler piegare la realtà ad un modello di
“promozione” delle disuguaglianze sociali.
L’abisso che separa
Taranto dalla media italiana non è relativo esclusivamente ai dati del
PIL e della distribuzione della ricchezza – dati, peraltro, negativi e
testimoni di una profonda ed avanzata condizione di crisi – ma tocca
anche quelle altre qualità che la vita dovrebbe avere, per essere
definita,come la definisce Sen, vivibile e felice.
Taranto è un
esperimento politico costituito da diverse fasi che tendono ad un unico
obiettivo: l’oblio. La prima è costituita dall’azione di rimozione:
l’operazione di cancellazione della questione ILVA e del conseguente
dramma di una città depredata dalla politica nazionale, ansiosa di
proteggere la produzione dell’acciaio e il profitto di un singolo. Il
programma va avanti lasciando la città fuori da azioni politiche
concrete e risolutive.
Il filosofo Baumann parla della creazione
di una “sottoclasse”, nella quale la politica aggressiva
dell’utilitarismo relega quella parte della società non riconosciuta
come centrale. I diritti di questa sottoclasse, se non esistessero,
sarebbe meglio per tutti, perché solo fonte di fastidi.
Taranto è
trattata dai governi regionale e nazionale come terra di nessuno,
espressione della sottoclasse baumiana, corpo estraneo e per il quale
non vale la pena di elaborare soluzioni.
Esistevano dei limiti naturali alla disuguaglianza che “Il capitale” di
Marx poteva tollerare, perché si doveva evitare che le disuguaglianze
diventassero troppo estreme: a Taranto, invece, nella disuguaglianza, si
è andati oltre.
Nella seconda fase si cercar di far passare il
problema come una questione di mero ordine pubblico. Ovvero,il gruppo
vittima della disuguaglianza viene dipinto come un manipolo di ribelli,
polemici, facinorosi, adepti della criminalità e dell’uso diffamatorio
delle immagini di fumi e polveri in fuoriuscita dall’industria del
padrone. Siamo alla reiscrizione della realtà, ovvero al tentativo di
far passare il cittadino attivo e cosciente come un delinquente propenso
alla ribellione sociale.
L’ultima fase dell’operazione consiste
nel ridurre il ribelle ad un semplice criminale di borgata, ad un
attore sociale che si muove in una realtà locale oscura e poco
attraente, agitato da ripicche tra clans e contento di perdere tempo in
vane azioni diffamatorie.
Una volta sminuita la portata della
lotta sociale intrapresa da questa terra di nessuno, che la filosofia
moderna definisce come vittima della “modernità liquida” nascente dalla
globalizzazione, si passa alla fase della distruzione finale, al danno
collaterale.
Nel lessico militare si parla di “perdite o danni
collaterali” allorché si vogliono descrivere gli effetti di incidenti
inaspettati, tuttavia molto prevedibili, delle azioni militari. Definire
“collaterali” gli esiti devastanti delle operazioni belliche lascia
supporre che questi danni fossero stati tuttavia presi in considerazione
al momento dell’inizio delle campagne, e che quindi fossero considerati
come possibili e non evitabili.
I danni collaterali in una
società moderna non sono prerogativa esclusiva delle guerre, ma
rappresentano tutte le emarginazioni e le disuguaglianze che
caratterizzano la società stessa. Taranto è il danno collaterale
dell’Italia, insieme alla Terra dei Fuochi, a Brindisi, a Vado Ligure,
alla Val di Susa.
L’invisibilità endemica delle vittime
collaterali è la conseguenza di una strategia ben precisa, messa a punto
dai poteri dominanti per impedire modelli sociali nuovi, inclusivi
delle sottoclassi e delle disuguaglianze.
Taranto è un “ danno
collaterale”: il dramma sanitario, ambientale, occupazionale dei
tarantini è cosa marginale, opinabile, non rientrante in nessuna ,o
quasi, agenda politica.
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