martedì 3 dicembre 2019

Trivelliamoli a casa loro.

L'italiana Eni e l'anglo-olandese Shell sono al centro dell'inchiesta sul più grande caso di corruzione internazionale legato al maggior giacimento petrolifero nigeriano. I cui effetti ambientali sono devastanti e costringono un terzo della popolazione a pensare alla migrazione.

 
Giulia Franchi Alessandro Runci
Un sondaggio realizzato da Afrobarometer evidenzia come oltre un terzo dei nigeriani abbia preso in considerazione l’ipotesi di emigrare. 
Negli ultimi anni, centinaia di migliaia di persone sono partite dal Paese più popoloso d’Africa alla ricerca di una vita migliore in Europa. 
Per molti di loro il viaggio è terminato anticipatamente.
Solo durante il primo anno della crisi migratoria, tra il 2014 e il 2015, si stima che oltre quattromila nigeriani siano morti tra le sabbie sahariane o nelle acque del Mediterraneo, ormai diventato un cimitero di donne, uomini e bambini troppo coraggiosi. 
Altri pagano il prezzo altissimo delle politiche di esternalizzazione delle frontiere messe in atto da Unione europea e Italia in primis.
Tra coloro rimasti intrappolati nei lager libici, istituzionalizzati con il da poco rinnovato trattato Italia-Libia, i nigeriani sono la prima nazionalità. 


Nonostante tutto, tanti ce l’hanno fatta.
Sono circa 90 mila i nigeriani che, negli ultimi cinque anni, sono riusciti a raggiungere le coste italiane, secondi soltanto agli eritrei.
Prevalentemente giovani e giovanissimi, che hanno affrontato drammi e fatiche indicibili durante i loro viaggi e le cui famiglie hanno spesso dato fondo a tutto ciò che avevano pur di offrire loro la possibilità di un altro futuro. 
La quasi totalità dei nigeriani arrivati in Italia viene per restarci: sono 87 mila quelli che hanno fatto richiesta di asilo politico nel nostro Paese dal 2015 a oggi. A ottenere lo status di rifugiato è stato però solamente il 4,5% di loro, a cui si aggiunge un altro 4% a cui è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e un 18% che ha ricevuto quella umanitaria, poi abolita con il Decreto Salvini.
Al restante 70% è toccata la triste sorte del «migrante economico», «clandestino», non avente diritto a rimanere sul suolo italiano e quindi da rimpatriare.
Per farlo però c’è bisogno della cooperazione delle autorità locali e così, a febbraio del 2016, l’allora capo della polizia, Alessandro Pansa, accompagnato dall’ex premier Matteo Renzi, è volato in Nigeria per siglare un «Memorandum di Cooperazione» in materia di immigrazione con il suo omologo, Solomon Arase. L’accordo è stato ufficializzato qualche mese dopo con l’incontro tra l’ex responsabile della Farnesina Paolo Gentiloni e il ministro degli Interni nigeriano.
Da allora, i nigeriani sono diventati l’obiettivo principale delle operazioni di rimpatrio effettuate dai governi italiani.
A gennaio del 2017, il Viminale ha diramato una nota destinata ai centri di identificazione ed espulsione (Cie), intercettata dal sito stranieriinitalia.it, nella quale esortava i Cie a liberare un centinaio di posti per identificare «sedicenti cittadini nigeriani rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale e per il loro successivo rimpatrio».
Al contempo, il ministero dell’interno invitava le questure a «effettuare mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale».
Da allora, oltre 600 nigeriani sono stati rimossi dall’Italia e rispediti «a casa loro» a bordo di aerei charter, con un costo medio di circa 7500 euro a migrante.

A casa loro ci sono posti come Goi.
Una scuola diroccata, il vecchio municipio coperto da erbacce, i muri scrostati di quelle che un tempo erano case.
Dal 2009, qui non ci vive più nessuno e quel che resta è solo un piccolo villaggio fantasma nel mezzo dell’Ogoniland, uno dei territori dell’immenso Delta del Niger.
Regione dove la multinazionale petrolifera anglo-olandese Royal Dutch Shell ha iniziato a trivellare nel 1958, quando la Nigeria era ancora una colonia britannica alla faticosa ricerca della sua indipendenza.
Come ci raccontò uno dei capi della comunità di Goi nel lontano 2011, durante la nostra prima di una lunga serie di visite nel Paese, a segnare per sempre il destino del villaggio furono le perdite dell’oleodotto Trans Niger Pipeline che attraversa tutt’oggi la regione fino all’isoletta-terminale di Bonny, dove il petrolio viene processato prima di essere esportato in tutto il mondo.
Un funesto giorno del 2004 un tubo vecchio di decenni non ha resistito più all’usura del tempo, crepandosi e riversando così nello specchio d’acqua accanto al quale era sorto il villaggio tutto il suo carico.
Gli alberi e le piante si sono ammalate, i pesci sono morti all’istante, la terra si è impregnata di una sostanza oleosa che ne ha distrutto per sempre la fertilità.
«A Goi come altrove non c’è più nulla da pescare – ci dissero allora – l’acqua e la terra sono contaminate. Nessuno ci ha risarcito per il danno che abbiamo subito, e, come tutti gli altri ce ne siamo dovuti andar via».
La Nigeria è il principale Paese africano per esportazione di greggio, con una produzione di circa due milioni di barili al giorno secondo le stime ufficiali, che ne fa il dodicesimo al mondo per riserve petrolifere. In realtà secondo le valutazioni non ufficiali, che guardano anche al petrolio estratto fuori dal controllo dello stato e rivenduto sul mercato nero, i barili prodotti quotidianamente sarebbero addirittura quattro milioni.

Circa la metà di questo enorme flusso di oro nero viene estratto e raffinato dalla compagnia anglo olandese, affiancata dall’italiana Eni ufficialmente dagli anni Settanta, sebbene le prime prospezioni fossero iniziate quasi dieci anni prima.

A giudicare dal numero di casi in cui negli ultimi anni le due multinazionali sono state citate in giudizio dalle comunità locali per le violazioni dei diritti umani collegate alle operazioni estrattive, i nigeriani hanno decisamente pagato un prezzo troppo alto per i quasi sessant’anni di attività petrolifera intensiva, le cui ferite inferte ai territori appaiono oramai troppo gravi per essere curate.
Viaggiando quasi ovunque per il Delta si assiste a una devastazione ambientale diffusa, con terra e acqua irrimediabilmente contaminate: l’Unep, l’agenzia delle Nazioni unite per l’ambiente, in un rapporto del 2011 stimava in un miliardo di dollari la spesa minima per provare a ripristinare il solo Ogoniland, senza parlare del resto del vasto territorio della regione del Delta.
A questo vanno sommati i danni permanenti provocati alle persone e all’atmosfera dal famigerato nonché illegale gas flaring, ossia l’emissione di gas connesso al processo di estrazione del greggio e bruciato in torcia, con cui gli abitanti del Delta sono costretti a convivere da più di mezzo secolo: un rumore devastante giorno e notte, aria irrespirabile e piogge acide che corrodono case e terreni.
A fare da contropartita alle centinaia di milioni di barili di greggio che ogni anno vengono esportati direttamente da questa terra c’è un’assoluta mancanza di redistribuzione della ricchezza sul territorio: poche strade, niente opere infrastrutturali, niente elettricità, niente lavoro – lamenta la stragrande maggioranza degli abitanti della regione – e l’unica prospettiva rimasta, per i più fortunati, è quella di andarsene. «
Ma ad andarsene dovrebbero essere loro, subito dopo aver ripulito tutto», tuonava già quasi dieci anni fa un anziano abitante della comunità di Ebocha, tra le più colpite dal flaring.
In questi dieci anni, poco sembra essere cambiato sul territorio, dove la popolazione continua a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno nonostante la ricchezza su cui sono appoggiate le loro case malandate.
Tuttavia, in questi stessi dieci anni, più di qualcuno ha continuato ad arricchirsi anche oltre il «formalmente lecito».
«Scaroni e altri» è la denominazione ufficiale del più grande caso di corruzione internazionale in cui sia mai stata coinvolta l’industria petrolifera mondiale, oggi in corso al Tribunale di Milano, che vede tra i tredici imputati anche l’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il direttore delle operazioni della multinazionale italiana Roberto Casula, quattro top manager della Royal Dutch Shell, l’intermediario Luigi Bisignani e l’ex ministro nigeriano del petrolio, oltre alle aziende stesse Eni e, per la prima volta nella storia, anche Shell.
Oggetto del contendere è il più grande giacimento petrolifero offshore nigeriano denominato Opl245, con 9,23 miliardi di barili stimati, situato in acque profondissime a quasi 40 chilometri dalla costa di fronte al Delta, lontano dagli occhi (e quindi dalle proteste) degli abitanti. Un piatto troppo succulento, da ottenere a qualsiasi costo, anche se la voce di costo in questione dovesse essere una tangente di un miliardo e cento milioni di dollari. Un fiume di soldi, pagati per l’acquisto della concessione, ma che in realtà sarebbero andati a ingrossare i conti offshore di politici e imprenditori, intermediari e faccendieri, non certo solo nigeriani.
Dalle carte del processo, svelate da alcuni media, inclusi scambi di email tra i manager di Shell che per più di un decennio hanno lavorato sull’affare, dimostrerebbero che siano stati proprio i manager delle due società petrolifere, e non i politici corrotti nigeriani, a ingegnarsi per definire lo schema di triangolazione tramite il governo locale che avrebbe schermato le società da ogni responsabilità nell’acquisire un asset rubato nel lontano 1998 dall’allora ministro del Petrolio. Asset il cui relativo pagamento, per un valore inferiore al prezzo reale della licenza, sarebbe finito interamente in una maxi-tangente.
La presunta tangente pagata per Opl245 equivale all’80% di quello che la Nigeria spende per la sanità in un anno. Questo dato, calato nella quotidianità di chi vive oggi nel Delta del Niger, e associato al dato che riporta il numero di nigeriani ancora oggi in viaggio verso l’Italia non può esimerci dal fare alcune semplici considerazioni.
Certamente non è solo il petrolio che avvelena le vite di milioni di persone. Tuttavia la concentrazione del potere necessaria all’industria petrolifera per proliferare favorisce le connivenze tra regimi politico-corporativi corrotti, che ottengono tutti i benefici dell’industria, scaricando i costi sociali, sanitari e ambientali su milioni di persone costrette a riorganizzarsi come possono per sopravvivere.
La corruzione diffusa ha un ruolo decisivo nell’alimentare flussi finanziari illeciti, nel concentrare la ricchezza nelle mani di pochissimi, impoverendone al contempo svariati milioni, alcuni dei quali sono costretti a lasciare casa propria ed entrare nel tunnel della migrazione forzata, presentata da noi con colpevole erroneità come conseguenza di una inevitabile miseria assurta quasi a condizione naturale.
La corruzione in Africa è un fatto.
Ma è un altrettanto ineludibile fatto che gli agenti della corruzione non sono solo i politici africani che ricevono le mazzette, ma anche le aziende e i singoli imprenditori nostrani, che non si limitano solo a pagarle, ma che troppe volte si presentano come vittime di un sistema che altrimenti li fagociterebbe impedendo loro di fare affari per il bene del paese.
Tuttavia gli unici a perderci davvero, in questo sistema, sono gli abitanti del Delta del Niger, perseguitati e dilaniati dal bisogno inesauribile dell’estrattivismo di alimentarsi accaparrando risorse e territori a ogni costo, espellendo e costringendo chi li abita a una vita impossibile, che si tratti di restare a casa propria e ammalarsi per le contaminazioni e gli stenti, o di partire per un impossibile riscatto, finendo a ingrossare le fila degli espulsi e degli ultimi a cui il sistema non concede tregua neanche qui da noi.
A perderci, in realtà, siamo tutti noi che questo sistema lo ripudiamo e lo combattiamo ovunque esso si manifesti, noi che la vecchia storia che «trivellandoli li aiutiamo a casa loro» non ce la siamo mai bevuta.

* Giulia Franchi, ricercatrice e attivista, con Re:Common dal 2010 documenta gli impatti del sistema estrattivista sulle comunità locali in Madagascar, Colombia, Senegal, Messico, Congo, Etiopia e Italia. Alessandro Runci, ricercatore e attivista di Re:Common dal 2017, lavora su campagne contro la green economy e la finanza fossile, e ha condotto ampie ricerche sul campo sugli impatti socio-ambientali delle industrie estrettative e delle grandi infrastrutture.

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