contropiano emanuele salvati
In questi giorni si parla molto della retorica tra amore e odio, sospinta dal fenomeno delle sardine che cercano di costruire un movimento di pacifica opposizione a quella che per loro è la questione dirimente, una cultura politica impregnata di odio che sta inquinando il dibattito politico e imbarbarendo le masse, come se bastasse dare amore per cambiare le sorti del mondo.
Questo pensiero, che pure si sta scoprendo capace di aggregare in maniera trasversale e di saper mobilitare intere piazze, come si è visto ieri anche a Roma, nasconde però una contraddizione che parte da un dato oggettivo: come facciamo a non odiare chi è causa delle nostre sofferenze? È importante quindi saper contrastare questa falsa retorica, che sfruttando le paure generate dall’onda di consenso che sta avendo la destra in questa fase, sta indirizzando gran parte del popolo della sinistra in un cul de sac creato appositamente da chi pensa che, in fin dei conti, le cose debbano rimanere così come sono e che l’unico problema è il livore nel dibattito politico.
È difatti emersa ormai in maniera inconfutabile la regia e l’egemonizzazione della piazza da parte del PD, sabato addirittura in S. Giovanni in Laterano c’erano Cofferati, pezzi del PD, della CGIL, il palco sembrava proprio quello di una manifestazione del centrosinistra.
Questo progetto è stato pianificato per combattere il consenso della Lega, agendo sul piano culturale da un lato (la piazza di sinistra) e sulle paure dall’altro, creando una nuova fase dicotomica in cui lo scontro tra due opposti (sinistra dell’amore e destra dell’odio) sono in realtà le due facce di una stessa medaglia, quella della proposta politica di stampo neo liberista. Proprio come ai tempi dell’anti berlusconismo, quando il pericolo era l’infiltrazione mafiosa e piduista nelle istituzioni, che risultò poi efficace per la costruzione di un forte centrosinistra, oggi il PD cerca non solo di costruire un’alleanza elettorale ma di aggregare al suo interno pezzi di forze organizzate e singoli cittadini, anche fuori dall’alveo culturale di sinistra, agendo quindi da nucleo centripeta in grado di costruire un partito che punti all’autonomia governativa.
Disarticolare il giochino della piazza “affine e di lotta” solo perché in qualche occasione si è cantato “bella ciao” serve pertanto a smascherare gli opportunismi che si celano dietro questo nuovo movimento e per tornare a mettere al centro dell’analisi e della proposta la strategicità del conflitto politico e sociale, come unica risposta alla barbarie e come unico mezzo per tornare ad aggregare, organizzare e rappresentare la nostra gente ovunque oggi si collochi, togliendola quindi dalle grinfie del salvinismo e dal neoliberismo del PD.
Ma cos’è il conflitto, se non un’azione che muove la sua forza da un sentimento d’odio?
L’odio è sempre stato parte integrante dei processi storici e sociali, è stato uno dei motori della storia dell’uomo, usato però il più delle volte dalle classi dominanti contro le masse subalterne; ad esempio l’odio religioso, come quello etnico, è stato usato per pianificare guerre solo ai fini di strategie imperialiste ed espansionistiche.
Cosa è invece successo quando gli sfruttati hanno compreso chi fosse la reale causa delle loro sofferenze? È accaduto che hanno alzato la testa ed hanno cambiato il corso della storia, non contrapponendo amore all’odio ma odiando a loro volta. La nascita e lo sviluppo di movimenti sociali e di massa che nello scorso secolo hanno cambiato i rapporti sociali, seppure il più delle volte all’interno delle dinamiche nazionali, è stata causata dall’odio di una intera classe nei confronti di un’altra, imponendo nella pratica talvolta anche la violenza, la quale risulta essere spesso determinante. Dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, tutti gli avanzamenti che la classe degli sfruttati ha raggiunto sono stati il frutto della catalizzazione dell’odio in un percorso di lotta.
L’amore che si contrappone all’odio è pertanto un gioco che non regge; non si può contrapporre null’altro che odio al fatto che, ad esempio, nel nostro paese sono 160 le vertenze aperte al Mise e che a rischio ci sono decine di migliaia di posti di lavoro; non si può contrapporre amore contro l’inquinamento industriale –consentito dai governi per il profitto dei gruppi industriali- che genera mostri che mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza umana. Come fanno gli operai dell’ex Ilva a non odiare chi li vuole continuare a far ammalare e contemporaneamente togliergli il posto di lavoro? Come fa una mamma del quartiere Tamburi a non odiare chi ha permesso che il proprio figlio si ammalasse di tumore?
Lo sforzo di intere comunità che resistono all’avanzare di una logica predatoria che tenta di coniugare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente non vengono comprese dalle sardine e non si accorgono che anche l’altra settimana è nuovamente scesa in strada la gente della Valsusa contro il progetto della Tav e che in tutto il paese è forte la battaglia contro i progetti veleniferi delle grandi opere come il Tap. Non se ne accorgono forse proprio perché il loro leader, Matteo Santori, che ieri ha anche praticamente difeso il decreto Minniti, è un ricercatore con la passione per la Tav e le trivellazioni, che accetta di buon grado la presenza delle madamìn si tav nella piazza delle sardine torinesi ma non vuole che si parli di redistribuzione della ricchezza.
L’odio serve, perché dall’odio nasce il desiderio di lotta e di riscossa.
Il 31 luglio del 2014 l’allora a.d. di AST, Lucia Morselli, fu rinchiusa all’interno del suo ufficio dalla massa dei lavoratori inferociti, dopo la presentazione del piano industriale che decretava lo stop dei forni e il taglio di cinquecento posti di lavoro. Restò segregata per un giorno e una notte interi e potè uscire dal suo ufficio solo la mattina seguente, camuffata e scortata dalla polizia. Quell’evento segnò l’inizio della grande lotta, dura e a tratti violenta, e di cui oggi si ricordano solo le cariche della polizia contro gli operai, avvenute a Roma.
La vertenza dell’AST del 2014 è proprio importante per questo, perché ci riconsegna due dati: il primo è quello che parla del fatto che quando il sentimento d’odio si riesce a trasformare in forza organizzata, si vince; dopo quella notte la Morselli ritirò il piano industriale ma si cominciò il pellegrinaggio al Mise, seppur accompagnato dal blocco delle portinerie.
Il secondo dato è scientifico: un movimento quasi spontaneo o comunque rabbioso e determinato, se non diretto da una forza in grado di porsi l’obiettivo del ribaltamento dei rapporti sociali e della vittoria, col tempo subisce un arretramento e una sconfitta. Solo così si può leggere la strategia dei sindacati confederali in merito al concetto di rappresentanza dei lavoratori, naturale conseguenza dell’accordo del luglio ’93, esercitata e pretesa di essere esercitata solo nelle sedi istituzionali.
Tale strategia fu messa in campo anche nel 2014 e portò ad un accordo al ribasso. Ed ecco per cui di quella lotta si ricorda solo l’aggressione agli operai per mezzo della celere. Ma in mezzo a tutto ciò ci fu una straordinaria lotta di classe portata avanti dai lavoratori stretti intorno a tutta la loro comunità, che aveva ben capito quale fosse il nemico comune: il padrone, impersonificato dalla multinazionale tedesca.
Semplicemente, l’odio si era trasformato in odio di classe.
Ecco qual è il compito che abbiamo oggi di fronte, che stante l’attuale fase di riflusso è l’aspetto più difficile nella nostra azione di militanti: saper trasformare l’odio generato dalla condizione sociale personale in odio di classe. Nei quartieri popolari, in mezzo al degrado materiale e immateriale, tra i migranti nei campi come in tutti gli altri luoghi di lavoro e di sfruttamento, in mezzo alla nostra gente, il lavoro quotidiano deve essere rivolto alla canalizzazione dell’odio in qualcosa di più grande perché, parafrasando Sanguineti, chi ci sfrutta innanzitutto ci odia e perciò dobbiamo ricambiare.
E’ un compito difficile, perché in questo momento l’egemonia della destra significa innanzitutto saper introiettare tutto il disagio derivato dalla propria condizione in odio verso un altro sfruttato, sia esso immigrato o chiunque concorra contro di noi alla scalata della piramide sociale ed è per questo che, oggi più che mai, serve costruire e dar forza ad una organizzazione, di donne e di uomini, in grado di saper ricostruire relazioni sociali tramite le attività quotidiane, con il mutualismo e le pratiche sociali, con il sindacato di classe nei luoghi di lavoro e nei quartieri popolari, tutte azioni volte all’aggregazione finalizzata al conflitto ma che dapprima servono a far capire che il vero nemico sta da un’altra parte.
Solo così si può educare al vero amore, non nella declinazione della falsa retorica sardiniana, ma l’amore per chiunque vive nella tua stessa condizione materiale e sociale, l’amore come gesto di ribellione che, accompagnato all’odio, prelude all’azione fisica del mettersi in gioco e della lotta fianco a fianco ad altri sfruttati. E’ la semplicità che è difficile a farsi, come scriveva Brecht, ma ci stiamo provando. Ci dobbiamo provare, se non vogliamo ricordarci sempre e solo delle botte prese e mai delle botte date.
* operaio ThyssenKrupp, membro del Coordinamento nazionale di Potere al Popolo
In questi giorni si parla molto della retorica tra amore e odio, sospinta dal fenomeno delle sardine che cercano di costruire un movimento di pacifica opposizione a quella che per loro è la questione dirimente, una cultura politica impregnata di odio che sta inquinando il dibattito politico e imbarbarendo le masse, come se bastasse dare amore per cambiare le sorti del mondo.
Questo pensiero, che pure si sta scoprendo capace di aggregare in maniera trasversale e di saper mobilitare intere piazze, come si è visto ieri anche a Roma, nasconde però una contraddizione che parte da un dato oggettivo: come facciamo a non odiare chi è causa delle nostre sofferenze? È importante quindi saper contrastare questa falsa retorica, che sfruttando le paure generate dall’onda di consenso che sta avendo la destra in questa fase, sta indirizzando gran parte del popolo della sinistra in un cul de sac creato appositamente da chi pensa che, in fin dei conti, le cose debbano rimanere così come sono e che l’unico problema è il livore nel dibattito politico.
È difatti emersa ormai in maniera inconfutabile la regia e l’egemonizzazione della piazza da parte del PD, sabato addirittura in S. Giovanni in Laterano c’erano Cofferati, pezzi del PD, della CGIL, il palco sembrava proprio quello di una manifestazione del centrosinistra.
Questo progetto è stato pianificato per combattere il consenso della Lega, agendo sul piano culturale da un lato (la piazza di sinistra) e sulle paure dall’altro, creando una nuova fase dicotomica in cui lo scontro tra due opposti (sinistra dell’amore e destra dell’odio) sono in realtà le due facce di una stessa medaglia, quella della proposta politica di stampo neo liberista. Proprio come ai tempi dell’anti berlusconismo, quando il pericolo era l’infiltrazione mafiosa e piduista nelle istituzioni, che risultò poi efficace per la costruzione di un forte centrosinistra, oggi il PD cerca non solo di costruire un’alleanza elettorale ma di aggregare al suo interno pezzi di forze organizzate e singoli cittadini, anche fuori dall’alveo culturale di sinistra, agendo quindi da nucleo centripeta in grado di costruire un partito che punti all’autonomia governativa.
Disarticolare il giochino della piazza “affine e di lotta” solo perché in qualche occasione si è cantato “bella ciao” serve pertanto a smascherare gli opportunismi che si celano dietro questo nuovo movimento e per tornare a mettere al centro dell’analisi e della proposta la strategicità del conflitto politico e sociale, come unica risposta alla barbarie e come unico mezzo per tornare ad aggregare, organizzare e rappresentare la nostra gente ovunque oggi si collochi, togliendola quindi dalle grinfie del salvinismo e dal neoliberismo del PD.
Ma cos’è il conflitto, se non un’azione che muove la sua forza da un sentimento d’odio?
L’odio è sempre stato parte integrante dei processi storici e sociali, è stato uno dei motori della storia dell’uomo, usato però il più delle volte dalle classi dominanti contro le masse subalterne; ad esempio l’odio religioso, come quello etnico, è stato usato per pianificare guerre solo ai fini di strategie imperialiste ed espansionistiche.
Cosa è invece successo quando gli sfruttati hanno compreso chi fosse la reale causa delle loro sofferenze? È accaduto che hanno alzato la testa ed hanno cambiato il corso della storia, non contrapponendo amore all’odio ma odiando a loro volta. La nascita e lo sviluppo di movimenti sociali e di massa che nello scorso secolo hanno cambiato i rapporti sociali, seppure il più delle volte all’interno delle dinamiche nazionali, è stata causata dall’odio di una intera classe nei confronti di un’altra, imponendo nella pratica talvolta anche la violenza, la quale risulta essere spesso determinante. Dalla rivoluzione francese ai nostri giorni, tutti gli avanzamenti che la classe degli sfruttati ha raggiunto sono stati il frutto della catalizzazione dell’odio in un percorso di lotta.
L’amore che si contrappone all’odio è pertanto un gioco che non regge; non si può contrapporre null’altro che odio al fatto che, ad esempio, nel nostro paese sono 160 le vertenze aperte al Mise e che a rischio ci sono decine di migliaia di posti di lavoro; non si può contrapporre amore contro l’inquinamento industriale –consentito dai governi per il profitto dei gruppi industriali- che genera mostri che mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza umana. Come fanno gli operai dell’ex Ilva a non odiare chi li vuole continuare a far ammalare e contemporaneamente togliergli il posto di lavoro? Come fa una mamma del quartiere Tamburi a non odiare chi ha permesso che il proprio figlio si ammalasse di tumore?
Lo sforzo di intere comunità che resistono all’avanzare di una logica predatoria che tenta di coniugare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente non vengono comprese dalle sardine e non si accorgono che anche l’altra settimana è nuovamente scesa in strada la gente della Valsusa contro il progetto della Tav e che in tutto il paese è forte la battaglia contro i progetti veleniferi delle grandi opere come il Tap. Non se ne accorgono forse proprio perché il loro leader, Matteo Santori, che ieri ha anche praticamente difeso il decreto Minniti, è un ricercatore con la passione per la Tav e le trivellazioni, che accetta di buon grado la presenza delle madamìn si tav nella piazza delle sardine torinesi ma non vuole che si parli di redistribuzione della ricchezza.
L’odio serve, perché dall’odio nasce il desiderio di lotta e di riscossa.
Il 31 luglio del 2014 l’allora a.d. di AST, Lucia Morselli, fu rinchiusa all’interno del suo ufficio dalla massa dei lavoratori inferociti, dopo la presentazione del piano industriale che decretava lo stop dei forni e il taglio di cinquecento posti di lavoro. Restò segregata per un giorno e una notte interi e potè uscire dal suo ufficio solo la mattina seguente, camuffata e scortata dalla polizia. Quell’evento segnò l’inizio della grande lotta, dura e a tratti violenta, e di cui oggi si ricordano solo le cariche della polizia contro gli operai, avvenute a Roma.
La vertenza dell’AST del 2014 è proprio importante per questo, perché ci riconsegna due dati: il primo è quello che parla del fatto che quando il sentimento d’odio si riesce a trasformare in forza organizzata, si vince; dopo quella notte la Morselli ritirò il piano industriale ma si cominciò il pellegrinaggio al Mise, seppur accompagnato dal blocco delle portinerie.
Il secondo dato è scientifico: un movimento quasi spontaneo o comunque rabbioso e determinato, se non diretto da una forza in grado di porsi l’obiettivo del ribaltamento dei rapporti sociali e della vittoria, col tempo subisce un arretramento e una sconfitta. Solo così si può leggere la strategia dei sindacati confederali in merito al concetto di rappresentanza dei lavoratori, naturale conseguenza dell’accordo del luglio ’93, esercitata e pretesa di essere esercitata solo nelle sedi istituzionali.
Tale strategia fu messa in campo anche nel 2014 e portò ad un accordo al ribasso. Ed ecco per cui di quella lotta si ricorda solo l’aggressione agli operai per mezzo della celere. Ma in mezzo a tutto ciò ci fu una straordinaria lotta di classe portata avanti dai lavoratori stretti intorno a tutta la loro comunità, che aveva ben capito quale fosse il nemico comune: il padrone, impersonificato dalla multinazionale tedesca.
Semplicemente, l’odio si era trasformato in odio di classe.
Ecco qual è il compito che abbiamo oggi di fronte, che stante l’attuale fase di riflusso è l’aspetto più difficile nella nostra azione di militanti: saper trasformare l’odio generato dalla condizione sociale personale in odio di classe. Nei quartieri popolari, in mezzo al degrado materiale e immateriale, tra i migranti nei campi come in tutti gli altri luoghi di lavoro e di sfruttamento, in mezzo alla nostra gente, il lavoro quotidiano deve essere rivolto alla canalizzazione dell’odio in qualcosa di più grande perché, parafrasando Sanguineti, chi ci sfrutta innanzitutto ci odia e perciò dobbiamo ricambiare.
E’ un compito difficile, perché in questo momento l’egemonia della destra significa innanzitutto saper introiettare tutto il disagio derivato dalla propria condizione in odio verso un altro sfruttato, sia esso immigrato o chiunque concorra contro di noi alla scalata della piramide sociale ed è per questo che, oggi più che mai, serve costruire e dar forza ad una organizzazione, di donne e di uomini, in grado di saper ricostruire relazioni sociali tramite le attività quotidiane, con il mutualismo e le pratiche sociali, con il sindacato di classe nei luoghi di lavoro e nei quartieri popolari, tutte azioni volte all’aggregazione finalizzata al conflitto ma che dapprima servono a far capire che il vero nemico sta da un’altra parte.
Solo così si può educare al vero amore, non nella declinazione della falsa retorica sardiniana, ma l’amore per chiunque vive nella tua stessa condizione materiale e sociale, l’amore come gesto di ribellione che, accompagnato all’odio, prelude all’azione fisica del mettersi in gioco e della lotta fianco a fianco ad altri sfruttati. E’ la semplicità che è difficile a farsi, come scriveva Brecht, ma ci stiamo provando. Ci dobbiamo provare, se non vogliamo ricordarci sempre e solo delle botte prese e mai delle botte date.
* operaio ThyssenKrupp, membro del Coordinamento nazionale di Potere al Popolo
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