global project Lorenzo Feltrin
Quando alle dieci di sera del 12 dicembre la BBC ha annunciato i risultati degli Exit Poll, con 368 seggi per i conservatori e solo 191 per i laburisti, un brivido freddo ha percorso tutti coloro che avevano visto nel Labour di Jeremy Corbyn una possibilità reale di contrasto all’aumento delle disuguaglianze inaugurato dal Thatcherismo e aggravatosi ulteriormente dopo la crisi finanziaria del 2008.
La speranza
era condivisa, con tutti i distinguo e le riserve del caso, anche da buona
parte di quella sinistra radicale ben conscia dei limiti della politica
elettorale incentrata sullo stato capitalista. In questi ambienti, il Corbynismo
è stato visto come uno strumento in grado di lanciare una sfida di massa al
realismo capitalista, riportando nel dibattito politico mainstream la
possibilità di un superamento del sistema vigente nel lungo termine e
l’ottenimento di riforme volte ad aumentare il potere di classe nel breve
termine. Molti compagni e compagne si sono spesi generosamente per la campagna
elettorale laburista. Dopotutto, la buona performance elettorale di Corbyn nel
giugno 2017, migliore di quella dei suoi predecessori Ed Milliband e Gordon
Brown, aveva dimostrato che un ampio consenso per una piattaforma relativamente
radicale era una possibilità concreta e non una fantasia idealista. Eppure, con
una maggioranza assoluta conservatrice di 365 seggi su 650, i risultati di
questa elezione sono stati inequivocabilmente disastrosi. Perché?
I
detrattori centristi di Corbyn, prevedibilmente, hanno subito denunciato le sue
politiche “estremiste”: nazionalizzazioni, aumenti significativi di spesa
sociale e salari, più tasse ai ricchi, maggiori regolamentazioni sulle imprese,
che l’avrebbero reso ineleggibile per difetto di realismo. Questa posizione è
ben rappresentata in Italia da Matteo Renzi, che ha twittato: “La sinistra
radicale, quella estremista, quella dura e pura è la migliore alleata della
destra. Continuate pure ad insultare Blair e tenetevi Corbyn: alla fine così
vince la destra più radicale. E alla fine la #brexit sarà colpa anche di questo
Labour”. Questa interpretazione ignora convenientemente le mediocri performance
elettorali del centro-sinistra che si sono ripetute nei recenti cicli elettorali
e di cui Renzi senz’altro sa qualcosa. E’ però vero che, se Corbyn si è
assicurato un rispettabile 32.2% del voto popolare, a causa del sistema a
collegi uninominali tale percentuale si è tradotta nel più basso numero di
seggi per il Labour dal 1935, ovvero 203.
E’ però
improbabile che una linea centrista sarebbe stata meno fallimentare, anche alla
luce della pessima performance dei centristi LibDem e dei blairiani che avevano
abbandonato il Labour. Soprattutto, come fanno notare i Corbynisti, oltre a una
campagna di aggressione mediatica spietata il Labour ha dovuto affrontare una
situazione inedita, quella di competere in una corsa elettorale dominata dal
nodo della Brexit. Si tratta di un terreno estremamente difficile per un
partito il cui elettorato e gli stessi quadri sono profondamente divisi sulla questione.
Com’è noto, le ex zone industriali e minerarie del centro e del nord - il
tradizionale “muro rosso” del Labour - hanno votato Leave, mentre le città del
sud (come Londra, Bristol e Brighton) si sono schierate per il Remain. Corbyn
ha tentato di mantenere unito l’elettorato con una posizione intermedia: rinegoziare
un accordo con la Ue e sottoporlo a un secondo referendum. Questo tentennante
compromesso si è rivelato essere debole rispetto al messaggio chiaro e risoluto
di Johnson: “Get Brexit done”. Il muro rosso è così crollato, consegnando ai
conservatori collegi elettorali che erano stati ininterrottamente laburisti fin
dalle origini del partito, con un impatto psicologico profondamente
demoralizzante a causa della memoria delle lotte operaie a cui queste zone
erano associate. Non è quindi chiaro che un programma più moderato avrebbe
potuto risolvere il dilemma della Brexit in alcun modo, soprattutto visto che
il voto working class per l’uscita dalla Ue esprime esasperazione nei confronti
dello stato di cose presenti e un forte desiderio di discontinuità.
L’analisi
però non può fermarsi qui. Bisogna infatti capire perché una parte così ampia
della working class britannica abbia visto nella Brexit quella possibilità di
cambiamento che non ha visto in Corbyn. Dire che la working class ha
scelto la Brexit è falso perché codifica la classe come bianca, nazionale e
industriale, adagiandosi sulla rappresentazione mediatica che, riducendo la
classe a un segmento della stessa, contribuisce di fatto a dividerla. E il voto
di classe è rimasto infatti diviso, con i lavoratori giovani e delle grandi
città (anche nel nord) rimasti con il Labour e quelli delle zone rurali e
semi-urbane del nord e delle Midlands passati in buona parte sotto i
conservatori. Ma ad ogni modo, dopo il primo posto del Brexit Party di Farage
alle ultime elezioni europee, i risultati del 12 dicembre hanno sancito la
vittoria della Brexit, a scapito di qualsiasi sondaggio sui possibili risultati
di un secondo referendum (ricordiamo, d’altronde, che i sondaggi non avevano
previsto il risultato del primo referendum).
Negli
ultimi giorni, la sinistra pro-Brexit e quella anti-Brexit hanno entrambe
interpretato i risultati delle elezioni come conferme delle loro tesi. Tale
dibattito è destinato a rimanere inconcludente, ma considerare il voto per la
Brexit come una scelta d’opposizione di classe all’austerità dell’Ue è
purtroppo una pia illusione. Il referendum sulla Brexit è stato vinto sulla
questione dell’immigrazione, tant’è vero che la sua traduzione in voti per il
Conservative Party - il partito che per decenni si è fatto artefice
dell’austerità più brutale, rendendo il Regno Unito il paese più diseguale
dell’Europa occidentale - è stata sospinta dalla promessa di una restrizione
della libertà di movimento. Per molti lavoratori martoriati dalla precarietà
lavorativa e dal declino dei servizi pubblici (ormai peggiori che in Italia in
molti settori), limitare l’accesso agli stranieri è sembrata una strada più
percorribile rispetto alla redistribuzione delle risorse. Non si tratta di
“ignoranza”. La narrazione dell’ignoranza è anzi il più lampante esempio di
“democratica” supponenza nei confronti di chi non può proteggersi dalla
flessibilità del mercato del lavoro tramite il monopolio su alcune qualifiche.
Si tratta piuttosto di pragmatismo. In assenza di alternative tangibili anche
nella vita quotidiana, è più facile colpire chi sta in basso che attaccare chi
sta in alto.
Questa
asimmetria è reale. Per ripetere un’analisi un po’ scolastica ma pur sempre
valida, nella società capitalista lo stato ha bisogno dell’accumulazione di
capitale per assicurarsi la propria sostenibilità finanziaria tramite le tasse.
Politiche economiche che attacchino sostanzialmente gli interessi dei “datori
di lavoro” causano caduta degli investimenti, fughe di capitali, crisi
economica, e allora quello che conta sono i rapporti di forza nella società.
Gli alti tassi di crescita e di profitto che avevano costituito i margini di
manovra per il compromesso socialdemocratico del trentennio post-bellico non si
danno più. E’ quindi miope vedere nella sconfitta del Labour semplicemente un
caso sfortunato dovuto alla coincidenza tra elezioni e Brexit. La Brexit è
stata un fattore chiave nel rendere così acuta la sconfitta ma quest’ultima non
è un caso isolato, si inserisce nel contesto della parabola discendente di
Syriza in Grecia e del ridimensionamento di Podemos in Spagna. Sappiamo bene
che la tendenza per ampi segmenti della classe nel mondo occidentale ad
affidarsi all’“interesse nazionale” piuttosto che a quello di classe va ben
oltre il Regno Unito e si traduce in un arretramento dell’ipotesi elettorale
come via strategica maestra per il progetto anti-capitalista.
Il
dilemma sembra dunque essere il seguente: inseguire la destra sulla “priorità
nazionale” e sul sciovinismo del welfare oppure concentrarsi su esperienze di
resistenza sul posto di lavoro e mutualismo nei quartieri, assumendo un
atteggiamento dogmatico di totale indifferenza nei confronti della politica
elettorale. Quest’ultima strada, nel contesto attuale, rischia di tradursi in
un gigantesco ridimensionamento delle ambizioni, una micro-politica della
riduzione del danno e dell’attenuazione della miseria, confinata al livello locale.
Per quanto riguarda il Regno Unito, per uscire da questo inaccettabile dilemma
sarebbe necessario rafforzare l’organizzazione di movimento, uscendo allo
stesso tempo dalla dicotomia tra un impraticabile orizzontalismo ideologico da
un lato e un “centralismo democratico” dall’altro che risulta in una miriade di
partitini e gruppuscoli leninisti, i quali poco possono fare per ridurre la
frammentazione. Non ci sono soluzioni facili e chi ha militato in questo
contesto avrà probabilmente fatto l’esperienza di sentirsi parte del problema.
L’entrismo nel Labour Party era diventato il superamento di tale
polverizzazione non solo politica ma anche sociale, ma a mio parere queste
elezioni sono un’ulteriore dimostrazione del fatto che il baricentro strategico
di un progetto anti-capitalista non può essere la politica elettorale. Il
difficile compito sembra essere quello di costruire una opposizione sociale con
un livello di organizzazione in grado di superare l’isolazionismo locale,
incidere sulla politica istituzionale mantenendo autonomia e, soprattutto,
lavorare nei territori emarginati come quelli in cui la base sociale del Labour
si è erosa.
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