mercoledì 2 ottobre 2019

Non possiamo salvare il pianeta da soli

L'idea che i singoli consumatori possano proteggere l’ambiente asseconda l'illusione di fare qualcosa per la crisi climatica mantenendo lo status quo. Come dimostrano i climate strike, serve l'azione collettiva per ottenere cambiamenti reali.

La crisi climatica è probabilmente la sfida più grande che l’umanità abbia mai affrontato, e le sue proporzioni e la sua urgenza non fanno altro che aumentare. È chiaro che dobbiamo ridurre le emissioni di CO2, e che farlo è una responsabilità soprattutto del nord del mondo.
Com’è facile dedurre, siamo «noi occidentali» a dover cambiare il nostro stile di vita per poter costruire un mondo più giusto e sostenibile. 
Non sorprende, allora, che il consumo etico (o sostenibile) sia diventato una risposta diffusa e popolare al disastro imminente. Addirittura, uno studio del 2018 condotto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ha rivelato che il 70% delle persone crede che i singoli consumatori siano i più responsabili nella protezione dell’ambiente.
Il consumo sostenibile è attrattivo tanto per i produttori quanto per i consumatori: dopo tutto, offre la possibilità di continuare a consumare mentre contemporaneamente ci si preoccupa degli altri e dell’ambiente. 

Alle persone viene data l’opportunità di fare qualcosa contro il pericolo astratto e opprimente rappresentato dalla crisi climatica, senza però il bisogno di impegnarsi in cambiamenti radicali.
Letto nei termini del nostro attuale sistema economico, sembra quasi avere senso.
Il consumo sostenibile combina la necessità economica di crescita e profitto con i valori della sostenibilità ecologica e sociale. 
La pretesa – o l’illusione – è che tutte queste cose possano prosperare insieme e in armonia. 
Claudia Langer, la fondatrice del sito di lifestyle sostenibile utopia.de, definisce questo «movimento» come «la rivoluzione più pacifica di tutti i tempi», dichiarando che oggi sono le scelte dei consumatori a definire in che direzione si muovono le aziende.
Ma è davvero così? Sembra davvero molto improbabile.
Basti pensare che – per dirne una – 100 aziende sono responsabili, da sole, del 71% delle emissioni globali di gas serra emessi dal 1988 a oggi.

Davvero stiamo decidendo noi consumatori come devono andare le cose? 
O più semplicemente ci stiamo facendo abbindolare dalle grandi aziende e dal movimento dello sviluppo sostenibile?
Forse le loro soluzioni – e i loro interessi – non sono gli stessi della maggioranza della società.

Effetti diseguali

Nel pensare all’impatto umano sull’ambiente, è importante considerare che gli effetti negativi della crisi climatica non sono gli stessi per tutti: al contrario, sono strettamente connessi alle diseguaglianze economiche e ad altri squilibri strutturali di potere.
Non solo la crisi climatica rappresenta una minaccia all’umanità in generale, ma aumenta e riproduce le diseguaglianze esistenti.
Una delle ragioni principali è che l’origine della crisi climatica e le sue conseguenze sono inestricabilmente connesse al nostro sistema economico, il capitalismo, e alle diseguaglianze di potere sociale come il patriarcato e il razzismo.
La diseguaglianza nelle emissioni di carbone pro-capite è stata sottolineata da uno studio Oxfam del 2015 che ha messo a confronto le emissioni dei consumi delle persone in base al reddito e alla ricchezza.
I risultati sono notevoli sotto due aspetti.
Primo, dimostrano che il 10 percento più ricco è responsabile di oltre il 50 percento delle emissioni globali di CO2, mentre il 50% più povero messo insieme ne produce soltanto il 10 percento. Secondo, lo studio dimostra che il gruppo di persone che emette meno CO2 è anche il gruppo che soffre di più per gli effetti del cambiamento climatico. Il 50% più povero vive prevalentemente in nazioni vulnerabili, ed è maggiormente a rischio di inondazioni, siccità e ondate di caldo. Diseguaglianze del genere si riscontrano anche all’interno della stessa nazione.
L’uragano Katrina rappresenta un esempio lampante: le persone povere, gli anziani e i neri sono stati colpiti più duramente e avevano meno risorse per affrontare il disastro. Soprattutto nel sud del mondo, le donne sono più a rischio degli uomini, cosa in parte dovuta a una distribuzione del lavoro basata sul genere. Il carico di lavoro delle donne aumenta se sono dipendenti da un’agricoltura piovana e responsabili dell’approvvigionamento dell’acqua, che diventa sempre meno accessibile con il prosciugarsi delle risorse. Le donne portano in maniera sproporzionata il carico sociale della cura degli anziani e dei malati, e sono dunque maggiormente a contatto con le situazioni di malasanità.
Queste diseguaglianze così polarizzate risultano ancora più drastiche se consideriamo chi sta beneficiando dallo sviluppo degli interessi economici nel settore dei combustibili fossili. Dal 2010 al 2015, il numero di persone sulla lista dei multi-miliardari di Forbes che avevano un interesse diretto nell’aumento della produzione dei combustibili fossili è salito da 54 a 88, mentre la loro ricchezza combinata è cresciuta da 200 miliardi di dollari a 300 miliardi. Questa piccola élite sta ricavando profitto direttamente dalle azioni e dalle politiche che danneggiano l’ambiente, e non ha chiaramente nessun interesse a cambiare lo status quo.

Bello ma inutile

Se è vero che non tutti sono danneggiati allo stesso modo dal disastro climatico, possiamo giustamente chiederci cosa implica questo dato di fatto per gli strumenti più efficaci a invertire la tendenza. Uno dei problemi nel rispondere a questa domanda è rappresentato dal fallimento dei tentativi esistenti di cambiamento strutturale. Per fare un esempio da manuale, guardiamo all’Accordo di Parigi delle Nazioni unite. Qui, 196 paesi hanno promesso di contenere l’aumento della temperatura comparato ai livelli pre-industriali al di sotto di 2 gradi, o preferibilmente persino di 1,5, e di raggiungere le zero emissioni entro il 2050. L’obiettivo è chiaro, le misure necessarie sono conosciute, e gli strumenti sono pronti, ma manca l’azione. I governi non stanno procedendo secondo l’accordo che hanno firmato, e gli Stati Uniti si sono addirittura ritirati.
Questo fallimento a livello istituzionale ha chiaramente dirottato l’attenzione sugli approcci individuali come il consumo sostenibile. Diversi strumenti sono stati sviluppati per supportarne la ricerca. Numerosi siti web ci permettono di calcolare la nostra impronta energetica, e ci vengono costantemente offerti suggerimenti su come ridurre le nostre personali emissioni di CO2, dal mangiare meno carne e prodotti caseari, all’usare di meno la macchina, volare di meno, spegnere le luci, o comprare prodotti organici e del commercio equo. Non solo fare cambiamenti del genere ci sembra ragionevole, data la catastrofe imminente, ma il consumo sostenibile ci dà la sensazione di avere il controllo: siamo noi a decidere cosa comprare e dunque cosa viene prodotto. Puniamo le aziende poco etiche attraverso il boicottaggio, o ricompensiamo le loro controparti etiche con il buycotting, il consumo positivo. Ma vale anche la pena chiedersi se un approccio del genere ci dia davvero potere e, soprattutto, se sia al livello della portata delle emissioni globali e di altri fattori di impatto ambientale.
I settori più importanti del consumo sostenibile sono tre: i prodotti del commercio equo, l’agricoltura biologica e la compensazione delle emissioni di carbonio. Il commercio equo si concentra soprattutto nel sostenere condizioni di lavoro e paghe “eque” e non sul ridurre l’impatto ambientale: uno studio di verifica del 2009 sull’impatto del commercio equo non ha trovato nessun articolo che includesse una valutazione metodica da un punto di vista ambientale.
Diverso è il caso dell’agricoltura biologica, che promuove con più chiarezza un’immagine di superiorità ambientale sui prodotti convenzionali. Tuttavia, uno studio di verifica del 2017 condotto da Michael Clark e David Tilman ha dimostrato che, contrariamente a quanto ritenuto da molte persone, il cibo biologico non è meno dannoso per la natura dei prodotti standard. A seconda del tipo di prodotto, la produzione biologica o convenzionale può essere migliore secondo una determinata prospettiva, ma nell’insieme le differenze sono più o meno inesistenti. A livello aggregato, le produzioni biologiche utilizzano meno energie, ma emettono circa la stessa quantità di gas serra, richiedono uno sfruttamento di suolo maggiore e causano più eutrofizzazione – il sovraccarico della superficie delle acque di nitrogeno e fosforo dovuto ai fertilizzanti.
Anziché concentrarsi sul comprare prodotti organici o convenzionali, sarebbe più efficace considerare le enormi differenze tra i tipi di cibo che consumiamo. Lo sfruttamento del suolo per un grammo di proteine è cinquanta volte maggiore nella produzione del manzo che nel riso, e le emissioni di carbone sono dieci volte più grandi. Quello che mangiamo è molto più importante di come viene prodotto.
Anche il settore della compensazione volontaria delle emissioni di carbone è cresciuto molto rapidamente. L’idea in questo caso è di donare soldi a progetti che mirano a compensare le emissioni di CO2 – ad esempio, piantando alberi in qualche altra parte del mondo. Sembrerebbe una cosa ragionevole, eppure in quasi tutti i casi ha un risvolto coloniale. Con la compensazione delle emissioni, le aziende – e chi ha le risorse finanziarie necessarie – possono semplicemente “esportare” nelle nazioni più povere la propria responsabilità a ridurre le emissioni, cosa che permette loro di evitare la necessità di un cambiamento radicale a casa propria.
Nondimeno, questi approcci risultano appetibili a molte persone. Michael Bilharz, un esperto di ecologia ed economia, ha censito le emissioni di CO2 e il consumo energetico di ventiquattro consumatori sostenibili che appartenevano alla demografica che gli esperti di marketing chiamano Lohas (Lifestyles of Health and Sustainability). Erano tutti membri di Naturshutz Bund, filiale bavarese di un’organizzazione tedesca che si occupa di protezione dell’ambiente, e ciascuno di loro aveva adottato varie misure per ridurre le proprie emissioni di CO2, come comprare prodotti biologici e regionali, evitare di lasciare gli oggetti elettronici in standby, e acquistare energia pulita. Di solito, gli individui stimavano la loro personale impronta ecologica essere circa un 30% inferiore rispetto alla media tedesca. Tuttavia, i risultati dello studio hanno smentito quest’autovalutazione – al contrario, il loro impatto energetico era uguale o superiore alla media nazionale.
Questa discrepanza ci mostra due cose. Primo, concentrarsi su ciò che è generalmente considerato uno stile di vita sostenibile è sbagliato. Le persone hanno la sensazione che stanno davvero «facendo qualcosa» cambiando piccole cose nella loro routine quotidiana o rimpiazzando i loro elettrodomestici con prodotti leggermente più efficienti. Ma non ne considerano i possibili effetti collaterali e possono addirittura essere incentivate a consumare di più, o investendo i soldi risparmiati con la bolletta della luce in altri modi altrettanto dannosi per l’ambiente, o perché si sentono moralmente autorizzati a consumare di più per via del loro comportamento sostenibile precedente, in un meccanismo di autoassoluzione.
In secondo luogo, lo studio di Bilharz ha dimostrato che il fattore più importante per determinare l’impatto delle emissioni di CO2 è il reddito e la ricchezza – e in questo le persone più attente all’ambiente non fanno eccezione. Chi ha più soldi di solito consuma e viaggia di più e vive in case o appartamenti più grandi.
Il libro di Bilharz, Going Big with Big Matters, scritto insieme a Katharina Schmitt, propone invece di concentrarci sulle decisioni che hanno un effetto maggiore, come ridurre le dimensioni dei nostri spazi abitativi personali, cambiare le nostre scelte nel settore del riscaldamento e dell’isolamento termico, ridurre drasticamente l’utilizzo degli aerei, guidare automobili altamente efficienti, partecipare a programmi di car-sharing e investire nelle energie rinnovabili.
Possiamo illustrare con dei numeri l’importanza relativa di questi cambiamenti: secondo uno studio di verifica del 2017 condotto da Seth Wynes e Kimberly Nicholas, i meccanismi di riciclaggio comprensivo ci fanno risparmiare 0,2 tCO2/e (tonnellate di CO2 equivalente) e migliorano il consumo familiare delle lampadine di 0,1 tCO2/e ogni anno. Un dato praticamente irrilevante se comparato con le 0,8 tCO2/e che possono essere risparmiate annualmente seguendo una dieta a base di vegetali o riducendo l’utilizzo dell’automobile. Un’automobile media emette 190 gCO2/mi (grammi di CO2 al miglio) e un SUV 216 gCO2/mi, il che porta rispettivamente a un consumo annuale di 2,56 tCO2/e e 2,91 tCO2/e, calcolate sulla base di 13,467 miglia ogni anno (la distanza media coperta in automobile dagli americani nel 2018).
Ma se abbiamo bisogno di attuare cambiamenti più grandi, cosa c’è di così attraente nelle piccole scelte, e perché il consumo sostenibile è stato così ampiamente promosso? Non è forse soltanto un modo per le aziende di esternalizzare le loro responsabilità morali?

Essere brave persone

Come detto prima, il consumo sostenibile può darci la sensazione di avere il controllo. Ma, in primo luogo, è una questione di comfort ed estetica. Secondo uno studio del 2009 pubblicato dall’Otto Group, un’azienda di commercio on-line tedesca, i consumatori di oggi sono motivati a comprare prodotti biologici e del commercio equo soprattutto per ragioni individuali e non per un più ampio senso di solidarietà sociale. Il comportamento etico è percepito come un fattore di comfort individuale, mentre l’estetica, l’indulgenza e l’auto-miglioramento hanno sorpassato gli ideali diffusi nel movimento ambientalista degli anni Ottanta, come la riduzione dei consumi e l’azione collettiva per cambiare il mondo. Non ci sorprende, allora, che il Dr. Johannes Merck, il direttore responsabile di Otto Group, abbia cercato testimonial di spicco che trasformassero il consumo etico in uno status symbol. Ha insistito sul fatto che persino la condotta etica è mossa dal desiderio di consumo.
Tuttavia, il consumo sostenibile ha anche un aspetto più brutalmente regressivo: costituisce uno spostamento della responsabilità dal settore produttivo e commerciale verso il consumatore. Salvare il pianeta diventa una questione di scelte personali anziché di regole sociali generali. In realtà, anche se il consumo etico fa distinzione tra prodotti buoni e cattivi, non si ferma lì. Oggi, sempre più persone si definiscono – e definiscono la loro superiorità sugli altri – in base a quello che comprano. La scelta di comprare o non comprare un determinato prodotto può influenzare la tua immagine di brava o cattiva persona, e può concretamente generare giudizi molto duri su sé stessi o sugli altri. In realtà, non tutti possono permettersi di partecipare al movimento del consumo etico. Non tutti hanno il tempo, i soldi, o l’energia per consumare eticamente. Fino al 1562, un seguace della Chiesa Cattolica poteva comprarsi l’indulgenza plenaria dai peccati con una lettera, dando soldi alla Chiesa in cambio della salvezza dell’anima. Oggi, se la responsabilità morale per l’impatto ecologico dei prodotti è spostata dal produttore al consumatore individuale, le persone a basso reddito semplicemente non possono permettersi una buona coscienza.
Anche per le aziende le ragioni per promuovere prodotti sostenibili sono più economiche che etiche. Il mercato di questi prodotti ha un grosso potenziale di crescita, e un “autentico” aspetto ecologico dà alle aziende un vantaggio competitivo: secondo lo studio “Green” Winners dell’agenzia di consulenza A.T. Kearney, le aziende ecologiche hanno fatturato circa il 10-15 percento in più rispetto alle aziende convenzionali durante la crisi finanziaria. Si suppone che il consumo etico arricchisca il significato del consumo stesso, combinandolo con valori immateriali come l’autonomia, la comunità, l’onestà, la giustizia e la natura. Si può fare un parallelo con la particolare trovata di marketing di Edward Bernays, spesso considerato il fondatore delle pubbliche relazioni. Nel 1929, pubblicizzò le sigarette per donne come «torce della libertà». Pagò alcune donne per fumare le loro «torce della libertà» alla Parata Pasquale di New York; a quei tempi fumare in pubblico era per le donne ancora un tabù sociale forte. La campagna mise sullo stesso piano le sigarette e l’emancipazione femminile che tentava di superare questo tabù sociale, e dunque utilizzò la lotta femminista per aprirsi un nuovo mercato.
Il consumo etico è l’esempio per eccellenza di “capitalismo verde”. Non solo maschera la critica alle conseguenze distruttive del capitalismo, ma le incorpora, e dunque si presenta come soluzione ai problemi che il capitalismo stesso ha generato. Eppure le misure orientate al mercato proposte dal capitalismo verde sono tanto antidemocratiche quanto apolitiche. Trasformano il valore ambientale in una questione di reddito e consumo in modo da mantenere invariato lo status quo. Le grandi aziende possono mantenere, se non addirittura aumentare, il loro attuale potere mentre vengono esentate dal rendere conto delle loro colpe dal mercato, che a sua volta carica gli individui del peso della responsabilità morale e li priva di un vero potere politico. Il capitalismo verde stabilizza il sistema attuale offrendo alle persone delle “soluzioni” al suo interno – “soluzioni” che non mettono in discussione, ma anzi promuovono, la smania di profitto che ne è alla base.

Azione collettiva

La crisi climatica è la sfida più grande del Ventunesimo secolo. Da decenni la scienza è molto chiara nell’indicare di cosa abbiamo bisogno per combattere il riscaldamento globale: dobbiamo stare sotto l’obiettivo Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) di 1,5 gradi massimi di aumento della temperatura rispetto all’era pre-industriale e ridurre la rete delle emissioni globali a zero entro il 2050. Eppure i leader politici non stanno agendo abbastanza in fretta, o non lo stanno facendo affatto, affidandosi invece al mercato. Ma noi non possiamo aspettare. La crisi climatica è un problema altamente politico che ci coinvolge tutti e tutte. Risolvere questo problema richiede un cambiamento politico reale – e un’azione collettiva che ci porti a ottenerlo.
Molte persone che si preoccupano per la crisi climatica e tentano attivamente di combatterla sono già consapevoli dei problemi sollevati da questo articolo. Tuttavia, la maggior parte delle conversazioni che abbiamo con amici e familiari a proposito di ciò che «io e te» potremmo concretamente fare è incentrata sulle azioni individuali, e non collettive. Discussioni del genere influenzano facilmente il modo in cui pensiamo e agiamo nel mondo, e ovviamente questo vale anche per le conversazioni sulle possibili soluzioni alla crisi climatica. E allora perché non discutiamo più spesso su come protestare insieme e come organizzarci in gruppo? Perché non parliamo di più degli strumenti di trasformazione che si sono rivelati efficaci nel passato – tipo i movimenti di massa e gli scioperi economici?
Negli ultimi mesi, è emerso un movimento ecologista globale che sta conoscendo un notevole successo ed è in crescita. Molti dei gruppi che si sono formati da poco si ispirano alle azioni dell’attivista svedese Greta Thunberg, che ha scioperato da scuola ogni venerdì dall’agosto 2018. Il 15 marzo scorso uno sciopero globale per il clima della scuola e dell’università ha avuto luogo in oltre duecento città con più di 1 milione e mezzo di partecipanti (secondo gli organizzatori). Lo sciopero, più generalizzato, iniziato il 20 settembre ha avuto una partecipazione ancora maggiore.
Il movimento è stato attaccato da varie forze conservatrici, ma ha anche ricevuto molto consenso e solidarietà. Centinaia di scienziati hanno firmato lettere aperte, e molti sindacati stanno sostenendo attivamente il movimento, anche invitando il corpo docente a supportare le loro studentesse e i loro studenti. Alcuni insegnanti hanno addirittura partecipato direttamente agli scioperi per il clima.
È lo sviluppo più promettente da anni – forse persino da decenni – nella lotta contro la crisi climatica. Se questa dinamica continua, è possibile che gli scioperi guidati dai giovani si uniranno alle lotte delle insegnanti per migliori condizioni di lavoro, mettendo insieme le richieste ambientaliste con le battaglie sui servizi pubblici. È questo il percorso per un cambiamento più radicale: la liberazione dal modello economico capitalista e dai pericoli che comporta per le nostre vite e il nostro ambiente. Come dimostrano gli scioperi per il clima, non devi salvare il pianeta da solo.

*Philipp Chmel è un attivista per il clima austriaco. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.

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