martedì 15 ottobre 2019

Io sono curda.

desc img La resistenza delle soldatesse curde ci offre una risposta. 
Guardate i loro volti, leggete i loro appelli, ascoltate le loro storie. Non c’è aggressività o sopraffazione negli sguardi e nelle parole di queste donne, diventate professioniste della guerra quasi controvoglia. Non invadono, non minacciano. 
Difendono. E non solo un territorio, ma i diritti che hanno conquistato. 
La regione del Rojava nel nordest della Siria, bersaglio di uno degli eserciti più potenti e maschilisti del mondo, è una lampadina di civiltà nel buio pesto di una sterminata barbarie. 
L’amministrazione curda ha sincronizzato gli orologi sul ventunesimo secolo, non soltanto abolendo le nozze forzate e il delitto d’onore, ma permettendo alle donne di studiare e di scegliersi liberamente il loro posto nel mondo. 
Il confronto con i «valori» che animano i cavernicoli dell’Isis e le truppe del gerarca turco Erdogan non potrebbe essere più stridente: dall’altra parte c’era e c’è una massa di maschi invasivi e invasati, retorici e ipocriti fin dal nome che si sono scelti per la loro campagna distruttiva: «Pace a primavera».
Le soldatesse curde hanno deciso di chiamarsi «Unità di protezione». 
Perché questo fa una donna, quando è libera di obbedire al suo istinto: cerca di proteggere la terra che ama e la vita di chi ama. 
Nei limiti del possibile e, lo stiamo vedendo, anche oltre.

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