Guardate i
loro volti, leggete i loro appelli, ascoltate le loro storie. Non c’è
aggressività o sopraffazione negli sguardi e nelle parole di queste
donne, diventate professioniste della guerra quasi controvoglia. Non
invadono, non minacciano.
Difendono. E non solo un territorio, ma i
diritti che hanno conquistato.
La regione del Rojava nel nordest della
Siria, bersaglio di uno degli eserciti più potenti e maschilisti del
mondo, è una lampadina di civiltà nel buio pesto di una sterminata
barbarie.
L’amministrazione curda ha sincronizzato gli orologi sul
ventunesimo secolo, non soltanto abolendo le nozze forzate e il delitto
d’onore, ma permettendo alle donne di studiare e di scegliersi
liberamente il loro posto nel mondo.
Il confronto con i «valori» che
animano i cavernicoli dell’Isis e le truppe del gerarca turco Erdogan
non potrebbe essere più stridente: dall’altra parte c’era e c’è una
massa di maschi invasivi e invasati, retorici e ipocriti fin dal nome
che si sono scelti per la loro campagna distruttiva: «Pace a primavera».
Le soldatesse curde hanno deciso di chiamarsi
«Unità di protezione».
Perché questo fa una donna, quando è libera di
obbedire al suo istinto: cerca di proteggere la terra che ama e la vita
di chi ama.
Nei limiti del possibile e, lo stiamo vedendo, anche oltre.
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