Diminuiscono i posti, soprattutto nel Sud
Nonostante un leggero aumento nel 2017, i posti di dottorato sono a tornati a scendere nel 2018. Da 9.288 a 8.960: un calo del 3,5%. La situazione però si fa sentire soprattutto nel Meridione. Se il Nord ha infatti perso il 37% dei posti, la perdita sale al 41% al Centro e al 55% al Sud. Una dinamica, sottolinea l’Adi, che “non fa che aumentare le differenze che già esistevano tra le tre grandi macroaree del Paese: oggi il Nord conta il 48,2% dei totale dei dottorati banditi in Italia, il Centro il 29,6% e il Mezzogiorno il 22,2%”.
I ricercatori, in media, iniziano il corso di dottorato intorno ai 29 anni. La maggior parte non viene stabilizzata. Negli atenei italiani, il personale precario, ormai, supera quello stabile: 68.428 lavoratori a tempo determinato contro 47.561 a tempo indeterminato. Ma il dato peggiore è rappresentato dalla percentuale di dottori di ricerca – ovvero il gradino più basso dopo il dottorato – che sono destinati a uscire dall’università: ben il 90,5%. Se poi si guarda la percentuale di donne che ha un contratto stabile, la disuguaglianza di genere aumenta salendo verso i vertici delle istituzioni universitarie. Le donne sono infatti il 50,3% tra gli assegnisti, il 41,1% tra i ricercatori a tempo determinato, il 37,5% tra i professori associati e solo il 23,1% tra i professori ordinari.
Nota (quasi) positiva: scendono i dottorati senza borsa
L’unica notizia buona rilevata dall’Adi è che il numero dei dottorati senza borsa di studio si è ridotto al 16,9%: una percentuale in progressiva riduzione e più che dimezzata rispetto a dieci anni fa (quando erano al 39%). Tuttavia, precisa l’Adi, “il confronto con il trend dei dottorati con borsa dimostra che la diminuzione dei posti banditi senza borsa non si traduce in un corrispondente incremento di quelli con borsa”. Riguardo alle tasse d’iscrizione al dottorato, inoltre, ci sono notevoli disuguaglianze tra le quote pagate. Una metà dei giovani ricercatori versa meno di 200 euro, mentre l’altra metà paga cifre che vanno da 200 a 2.000 euro. Secondo l’Adi, si tratta sostanzialmente di una “una “tassa sul talento” che fornisce, in ogni caso, un gettito esiguo”.
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