Incurante del senso del ridicolo, il governo approva un emendamento che prevede le telecamere in ogni casa per anziani. È questo l'investimento per il crescente numero di famiglie in difficoltà che non possono permettersi una badante o un centro di cura privato.
Spingendo ogni giorno più in là il limite del ridicolo, il governo
continua a promuovere proposte ed emendamenti che ruotano attorno a
pratiche di controllo disciplinare.
Da ultimo, nel Decreto Sblocca Cantieri è stato approvato in modo bipartisan (M5S, Lega, Fi, Pd) un emendamento per l’introduzione di telecamere non soltanto nelle scuole, ma anche in ogni casa di cura per anziani.
Sembra questa per il Governo la reazione tempestiva al disagio assistenziale vissuto da milioni di anziani, cui il sistema sanitario nazionale non garantisce l’assistenza, gli stessi che non possono neppure permettersi una badante, né un posto in una casa di cura privata.
Il mito del sistema sanitario universale e pubblico in Italia si scontra con la realtà, in cui la programmazione assente quando non dichiaratamente austera mina il diritto al benessere di una fascia crescente della popolazione.
Una questione che intreccia tanto il disinvestimento pubblico in sanità, rispetto ai bisogni sociali, e la complementare privatizzazione e liberalizzazione di ampi pezzi del settore sanitario e assistenziale, quanto l’individualizzazione totale delle cure. Così chi non può permettersi una casa di cura e/o una badante semplicemente rimarrà senza assistenza. Non si parla di una minoranza, ma della maggioranza degli anziani: secondo un recente studio riportato dal Sole24ore, solo il «52,9% degli anziani può permettersi l’assistenza di un lavoratore domestico per appena cinque ore alla settimana». Così viene a crearsi un vero e proprio circolo vizioso che sfocia inevitabilmente nello sfruttamento di centinaia di migliaia di badanti, spesso immigrate.
Il Corriere della sera ha recentemente acceso i riflettori sulle drammatiche storie delle badanti rumene afflitte dalla «Sindrome Italia». La maggior parte di loro sono ovviamente assunte in nero, come riporta il recente Libro Bianco del lavoro domestico ‘Famiglia, lavoro e abitazione’ a cura di Assindatcolf (Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico) e da Effe (Federazione europea dei datori di lavoro domestico). La questione non è solo italiana, ma riguarda tutta l’Europa dove nel settore della cura – che oltre alle badanti comprende colf e baby sitter – si contano circa 8 milioni di lavoratori regolari, il 4% dell’occupazione totale, che coinvolge principalmente le donne (83% del totale dei lavoratori nel settore). Un settore destinato a crescere, fino a 13 milioni di lavoratori, considerando l’invecchiamento della popolazione europea. Affinché ciò accada però bisogna prendersene cura, per rimanere in tema. Il come lo si farà non è irrilevante, non soltanto per le questioni di efficienza e risparmio tirate in ballo nel dibattito pubblico.
Come spiegano Sara Farris e Sabrina Marchetti nel primo numero di Jacobin Italia, il tema del lavoro di cura, del suo scivolamento progressivo da un piano privato e affettivo a uno di mercato, pone soprattutto questioni di giustizia sociale e anche di efficacia, in relazione all’effettiva capacità di questi «servizi» di soddisfare i bisogni, anche affettivi, a un livello qualitativamente almeno dignitoso per chi ne usufruisce, garantendo al contempo la condizione dei lavoratori che lo erogano.
Ad oggi, oltre i lavoratori e le lavoratrici a domicilio, i servizi della cura agli anziani presso strutture convenzionate si distribuisce tra pubblico, privato e quella via di mezzo che è il terzo settore, che da troppo tempo ormai pare vivere una deriva fatta di società solo fittiziamente non profit, dove le condizioni di lavoro e del servizio sono molto simili a quelle dove l’interesse principale rimane il profitto.
Una tendenza inevitabile in un contesto di riduzione dei finanziamenti pubblici a disposizione di queste forme di esternalizzazione e la conseguente corsa al ribasso sui costi, soprattutto del lavoro, per mantenere e accrescere la quota di profitti. Dai dati pubblicati dall’Eurofound nel 2018, in Italia, il settore pubblico copre in via diretta soltanto il 30% delle strutture, mentre il 43% circa è di competenza del non-profit e il restante dal settore privato commerciale. Una situazione intermedia nel confronto con altri paesi europei, in cui i due opposti sono il modello prevalentemente privato del Regno Unito (con circa l’80% a gestione privata) e quello svedese. Nel paese scandinavo, il protagonista assoluto del welfare è il settore pubblico, che copre circa il 75% dei servizi offerti e rimane pressoché gratuito: in media, le rette pesano infatti sugli anziani per appena il 5% del loro reddito. Lo stesso studio non riporta i dati per l’Italia, ma indica che tra il 2007 e il 2012 (dove l’inflazione media è aumentata in tutto di circa il 12%, ma in cui redditi medi e salari sono crollati) il costo medio per una casa di cura privata è aumentato di circa il 18,5% per quelle più economiche, e del 13% per le case di cura più costose. La qualità tuttavia lascia spesso a desiderare: nel 40% dei casi essa è talmente scarsa da scoraggiare le famiglie dall’investimento, che come già detto all’inizio rimane un miraggio per la maggior parte dei pensionati italiani.
Non si tratta solo del caso italiano, gli studi sull’impatto della competizione tra pubblico e privato, o della gestione fortemente orientata al mercato dei servizi di cura per gli anziani mostrano che non esiste nessun risultato univoco che sostenga il settore privato come migliore fornitore del servizio. Di sicuro, però, è più caro, e fa soprattutto più profitti. In Germania, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda e Regno Unito i salari dei lavoratori e delle lavoratrici sono più alti e con condizioni di lavoro migliori nel settore pubblico che in quello privato o non profit. Salari che mediamente sono già molto bassi e si collocano nel 20% più basso delle retribuzioni tra diverse occupazioni, stando ai risultati dell’European Job Monitor 2016. A titolo di esempio, da una rapida ricerca su Indeed, portale su cui vengono raccolte domande e offerte di lavoro, si legge che mediamente lo stipendio di un lavoratore o lavoratrice che assiste gli anziani è di 949 euro al mese.
Un sistema che sottrae benessere all’intera collettività, sia ai cittadini che hanno bisogno di cure sia ai lavoratori spremuti come limoni che si barcamenano in questo settore. Ed è su temi come questo che bisogna ricostruire un’opposizione politica a questo governo e al suo leader Matteo Salvini, come a tutti quelli che di giorno votano i suoi decreti e di notte predicano il voto utile contro di lui. Il tema del controllo sociale va affrontato e contestato con un discorso politico ampio che sposti il centro della discussione facendo emergere tutte le questioni sociali che gli argomenti dominanti nascondono. Altrimenti a parlare con la maggioranza degli italiani, quelli che hanno votato Lega, quelli che non l’hanno votata, quelli che a votare non sono proprio andati, rimane Matteo Salvini che all’indomani del successo elettorale dichiara a Porta a Porta che il suo obiettivo è investire e detassare fino a quando la disoccupazione non arriverà al 5%. Parole insultanti ma che non percepite tali se rimangono le uniche.
Di fronte a questa narrazione che si fa governo, e mostra nelle urne di rafforzarsi, non esistono scorciatoie ed è arrivato il tempo di fare un salto in avanti affermando la necessità di un sistema sanitario nazionale che copra i bisogni di tutti i cittadini, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla cittadinanza, e soprattutto dalle condizioni economiche. Dovrà essere un sistema inevitabilmente pubblico che non affidi ai privati le sue funzioni né a quella terra di mezzo del terzo settore. L’hanno capito persino nel Regno Unito, patria delle esternalizzazioni, ma dove sempre più comunità locali reintegrano i servizi prima affidati ai privati. Dove le battaglie dei lavoratori pongono come rivendicazione centrale di essere reinternalizzati per poter con più forza lottare su salari, condizioni di lavoro e diritti.
Il capitalismo e le sue forme istituzionali – di cui privatizzazioni ed esternalizzazioni sono basi portanti – non è il sistema che meglio garantisce efficienza e libertà: è quello in cui l’unica libertà, accordata agli anziani e ai lavoratori e/o familiari che se ne prendono cura, è prendere o lasciare, pagare o rimanere senza cura e/o disoccupati. Al contrario, un sistema che garantisce cure e rispetto dei diritti per tutti i soggetti coinvolti è l’unico in grado di affermare giustizia sociale e si chiama sistema sanitario nazionale, pubblico e universale. Opporsi alla deriva antidemocratica che penetra e aggredisce le nostre vite come cittadini, come familiari, come lavoratori ha bisogno della riconquista di terreni di scontro, sottraendoli ai profitti di pochi.
*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).
Da ultimo, nel Decreto Sblocca Cantieri è stato approvato in modo bipartisan (M5S, Lega, Fi, Pd) un emendamento per l’introduzione di telecamere non soltanto nelle scuole, ma anche in ogni casa di cura per anziani.
Sembra questa per il Governo la reazione tempestiva al disagio assistenziale vissuto da milioni di anziani, cui il sistema sanitario nazionale non garantisce l’assistenza, gli stessi che non possono neppure permettersi una badante, né un posto in una casa di cura privata.
Il mito del sistema sanitario universale e pubblico in Italia si scontra con la realtà, in cui la programmazione assente quando non dichiaratamente austera mina il diritto al benessere di una fascia crescente della popolazione.
Una questione che intreccia tanto il disinvestimento pubblico in sanità, rispetto ai bisogni sociali, e la complementare privatizzazione e liberalizzazione di ampi pezzi del settore sanitario e assistenziale, quanto l’individualizzazione totale delle cure. Così chi non può permettersi una casa di cura e/o una badante semplicemente rimarrà senza assistenza. Non si parla di una minoranza, ma della maggioranza degli anziani: secondo un recente studio riportato dal Sole24ore, solo il «52,9% degli anziani può permettersi l’assistenza di un lavoratore domestico per appena cinque ore alla settimana». Così viene a crearsi un vero e proprio circolo vizioso che sfocia inevitabilmente nello sfruttamento di centinaia di migliaia di badanti, spesso immigrate.
Il Corriere della sera ha recentemente acceso i riflettori sulle drammatiche storie delle badanti rumene afflitte dalla «Sindrome Italia». La maggior parte di loro sono ovviamente assunte in nero, come riporta il recente Libro Bianco del lavoro domestico ‘Famiglia, lavoro e abitazione’ a cura di Assindatcolf (Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico) e da Effe (Federazione europea dei datori di lavoro domestico). La questione non è solo italiana, ma riguarda tutta l’Europa dove nel settore della cura – che oltre alle badanti comprende colf e baby sitter – si contano circa 8 milioni di lavoratori regolari, il 4% dell’occupazione totale, che coinvolge principalmente le donne (83% del totale dei lavoratori nel settore). Un settore destinato a crescere, fino a 13 milioni di lavoratori, considerando l’invecchiamento della popolazione europea. Affinché ciò accada però bisogna prendersene cura, per rimanere in tema. Il come lo si farà non è irrilevante, non soltanto per le questioni di efficienza e risparmio tirate in ballo nel dibattito pubblico.
Come spiegano Sara Farris e Sabrina Marchetti nel primo numero di Jacobin Italia, il tema del lavoro di cura, del suo scivolamento progressivo da un piano privato e affettivo a uno di mercato, pone soprattutto questioni di giustizia sociale e anche di efficacia, in relazione all’effettiva capacità di questi «servizi» di soddisfare i bisogni, anche affettivi, a un livello qualitativamente almeno dignitoso per chi ne usufruisce, garantendo al contempo la condizione dei lavoratori che lo erogano.
Ad oggi, oltre i lavoratori e le lavoratrici a domicilio, i servizi della cura agli anziani presso strutture convenzionate si distribuisce tra pubblico, privato e quella via di mezzo che è il terzo settore, che da troppo tempo ormai pare vivere una deriva fatta di società solo fittiziamente non profit, dove le condizioni di lavoro e del servizio sono molto simili a quelle dove l’interesse principale rimane il profitto.
Una tendenza inevitabile in un contesto di riduzione dei finanziamenti pubblici a disposizione di queste forme di esternalizzazione e la conseguente corsa al ribasso sui costi, soprattutto del lavoro, per mantenere e accrescere la quota di profitti. Dai dati pubblicati dall’Eurofound nel 2018, in Italia, il settore pubblico copre in via diretta soltanto il 30% delle strutture, mentre il 43% circa è di competenza del non-profit e il restante dal settore privato commerciale. Una situazione intermedia nel confronto con altri paesi europei, in cui i due opposti sono il modello prevalentemente privato del Regno Unito (con circa l’80% a gestione privata) e quello svedese. Nel paese scandinavo, il protagonista assoluto del welfare è il settore pubblico, che copre circa il 75% dei servizi offerti e rimane pressoché gratuito: in media, le rette pesano infatti sugli anziani per appena il 5% del loro reddito. Lo stesso studio non riporta i dati per l’Italia, ma indica che tra il 2007 e il 2012 (dove l’inflazione media è aumentata in tutto di circa il 12%, ma in cui redditi medi e salari sono crollati) il costo medio per una casa di cura privata è aumentato di circa il 18,5% per quelle più economiche, e del 13% per le case di cura più costose. La qualità tuttavia lascia spesso a desiderare: nel 40% dei casi essa è talmente scarsa da scoraggiare le famiglie dall’investimento, che come già detto all’inizio rimane un miraggio per la maggior parte dei pensionati italiani.
Non si tratta solo del caso italiano, gli studi sull’impatto della competizione tra pubblico e privato, o della gestione fortemente orientata al mercato dei servizi di cura per gli anziani mostrano che non esiste nessun risultato univoco che sostenga il settore privato come migliore fornitore del servizio. Di sicuro, però, è più caro, e fa soprattutto più profitti. In Germania, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda e Regno Unito i salari dei lavoratori e delle lavoratrici sono più alti e con condizioni di lavoro migliori nel settore pubblico che in quello privato o non profit. Salari che mediamente sono già molto bassi e si collocano nel 20% più basso delle retribuzioni tra diverse occupazioni, stando ai risultati dell’European Job Monitor 2016. A titolo di esempio, da una rapida ricerca su Indeed, portale su cui vengono raccolte domande e offerte di lavoro, si legge che mediamente lo stipendio di un lavoratore o lavoratrice che assiste gli anziani è di 949 euro al mese.
Un sistema che sottrae benessere all’intera collettività, sia ai cittadini che hanno bisogno di cure sia ai lavoratori spremuti come limoni che si barcamenano in questo settore. Ed è su temi come questo che bisogna ricostruire un’opposizione politica a questo governo e al suo leader Matteo Salvini, come a tutti quelli che di giorno votano i suoi decreti e di notte predicano il voto utile contro di lui. Il tema del controllo sociale va affrontato e contestato con un discorso politico ampio che sposti il centro della discussione facendo emergere tutte le questioni sociali che gli argomenti dominanti nascondono. Altrimenti a parlare con la maggioranza degli italiani, quelli che hanno votato Lega, quelli che non l’hanno votata, quelli che a votare non sono proprio andati, rimane Matteo Salvini che all’indomani del successo elettorale dichiara a Porta a Porta che il suo obiettivo è investire e detassare fino a quando la disoccupazione non arriverà al 5%. Parole insultanti ma che non percepite tali se rimangono le uniche.
Di fronte a questa narrazione che si fa governo, e mostra nelle urne di rafforzarsi, non esistono scorciatoie ed è arrivato il tempo di fare un salto in avanti affermando la necessità di un sistema sanitario nazionale che copra i bisogni di tutti i cittadini, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla cittadinanza, e soprattutto dalle condizioni economiche. Dovrà essere un sistema inevitabilmente pubblico che non affidi ai privati le sue funzioni né a quella terra di mezzo del terzo settore. L’hanno capito persino nel Regno Unito, patria delle esternalizzazioni, ma dove sempre più comunità locali reintegrano i servizi prima affidati ai privati. Dove le battaglie dei lavoratori pongono come rivendicazione centrale di essere reinternalizzati per poter con più forza lottare su salari, condizioni di lavoro e diritti.
Il capitalismo e le sue forme istituzionali – di cui privatizzazioni ed esternalizzazioni sono basi portanti – non è il sistema che meglio garantisce efficienza e libertà: è quello in cui l’unica libertà, accordata agli anziani e ai lavoratori e/o familiari che se ne prendono cura, è prendere o lasciare, pagare o rimanere senza cura e/o disoccupati. Al contrario, un sistema che garantisce cure e rispetto dei diritti per tutti i soggetti coinvolti è l’unico in grado di affermare giustizia sociale e si chiama sistema sanitario nazionale, pubblico e universale. Opporsi alla deriva antidemocratica che penetra e aggredisce le nostre vite come cittadini, come familiari, come lavoratori ha bisogno della riconquista di terreni di scontro, sottraendoli ai profitti di pochi.
*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).
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